Alzheimer, gli scienziati leader dei principali studi ad Affari
Morris: primi risultati nel 2019. Bateman: differenze tra le forme del morbo, ma utili a sconfiggerlo. Sperling: obiettivo 5 anni in più senza sintomi
di Paola Serristori
Before the Symptoms. Prima dei sintomi. É la sfida che gli scienziati leader nella ricerca contro l’Alzheimer hanno accettato. Primo tra tutti, il Professore John Morris, Direttore di Section of Memory and Aging Adult Neurology, Harvey A and Dorismae Friedman, Professore insigne di Neurologia, Washington University-School of Medicine in St. Louis, che coordina lo studio internazionale DIAN su volontari discendenti da famiglie colpite dalla forma genetica di Alzheimer, di cui in Italia esiste una sezione di sperimentazione all’IRCCS Centro San Giovanni di Dio, di Brescia, sotto la guida del Professore Giovanni Frisoni.
Professore Morris, a che punto è la sua ricerca?
“Gli studi procedono su un lungo arco di tempo, in cui il nostro obiettivo è quello di cercare di verificare se si verificano benefici sulla base del protocollo adottato. Tutti i soggetti che entrano nel campione di volontari tenuti sotto osservazione sono cognitivamente normali. Stiamo monitorando i cambiamenti che avvengono nel cervello sano di chi eredita geneticamente la malattia. Dobbiamo seguirli per anni, per vedere se i farmaci somministrati nella sperimentazione clinica DIAN-TU. sono in grado di ritardare o prevenire l’esordio dei sintomi dell’Alzheimer. Avremo preliminari evidenze dal primo studio verso la fine 2019, o nel 2020. Questo è l’obiettivo che ci siamo dati. Abbiamo completato due fasi sulle donne, ma dobbiamo analizzare i dati per un periodo di tempo.”
Sinora è soddisfatto di come la ricerca procede?
“Secondo me, è ciò che bisogna fare. Studiare persone asintomatiche con terapie anti-amiloide (Aβ) per vedere se riusciamo a prevenire o ritardare i sintomi della malattia.”
Randy Bateman, Professore insigne di Neurologia, Charles F. and Joanne Knight Alzheimer’s Disease Research Center, University of Washington-School of Medicine in St. Louis, è a capo della sperimentazione clinica di farmaci sui volontari che hanno la componente genetica e, purtroppo, la certezza di contrarre il morbo di Alzheimer. Le molecole scelte e somministrate nello studio sono Solanezumab (anticorpo anti-solubile Aβ) e Gantenerumab (anticorpo anti-fibrillare Aβ).
Professore Bateman, nel concreto quante speranze di una cura?
“Nell’ultimo decennio, undici protocolli di sperimentazione in fase III, la più avanzata, sono falliti. Ora le conoscenze sono avanzate. Rispetto anche solo a tre anni fa, nel 2017 siamo in grado di condurre la ricerca sulla prevenzione. Tra Alzheimer genetico ed Alzheimer sporadico esistono delle differenze. Di quantitativi dei depositi tossici. E forse di location. Attraverso il primo, il cui esordio può essere predetto prima dei sintomi clinici, è possibile condurre esperimenti guadagnando anni di vantaggio sui danni che il cervello andrà a soffrire. Questo è sostanzialmente Dominant Inherited Alzheimer Network (DIAN) – Trials Unit (TU). L’86% dei volontari arruolati è attualmente in fase attiva. Tutto procede secondo le nostre previsioni.”
Bateman cita il precedente della sperimentazione per trovare una cura alla forma ereditaria di colesterolemia (Inherited High Cholesterol).
“Con le statine – prosegue lo scienziato – si sono guadagnate decine di anni di vita. La primaria prevenzione è diventata una cura dei livelli di colesterolo in passato considerati normali. Noi stiamo somministrando un inibitore della beta secretasi e gamma secretasi, modulatori del target del difetto molecolare delle mutazioni dell’autosomica dominante forma di Alzheimer (ADAD). Abbiamo 500 partecipanti in diversi Paesi, come Australia, Canada, Francia, Italia, Spagna, Regno Unito, America del Nord, Argentina, Asia, e 26 siti. Siamo in grado di fotografare i cambiamenti del metabolismo e l’atrofia nel cervello 25 anni prima che la demenza insorga. Vediamo grandi differenze nel comportamento di tau rispetto alla forma non genetica di Alzheimer. I volontari che hanno ereditato il morbo non hanno grovigli della proteina tau nell’ippocampo, a differenza del cervello di anziani malati. Anche solo 2 anni prima dell’inizio della malattia non c’è tau. Invece ogni persona malata presenta la formazione tossica di tau. Nella forma ereditaria attraverso l’esame PIB-PET notiamo che sono più colpiti i gangli basali, nella forma sporadica la corteccia. Dunque possiamo affermare che si tratta di due forme simili del morbo di Alzheimer, ma non identiche.”
Reisa Sperling, Professore di Neurologia a Harvard Medical School e Brigham and Women's Hospital, che conduce lo studio Anti-Amyloid Treatment in Asymptomatic Alzheimer’s Disease (A4), in collaborazione col collega Paul Aisen, Direttore di Alzheimer’s Therapeutic Research Institute, University of Southern California. All’inizio della sperimentazione i volontari sono cognitivamente normali, ma hanno livelli anormalmente elevati di beta-amiloide nel cervello. Il farmaco prescelto è Solanezumab, che non ha raggiunto l’obiettivo primario in studi su campioni meno specifici di partecipanti. La comunità scientifica aveva commentato che il fattore discriminante potrebbe essere la condizione del cervello già gravemente compromessa e non più in grado di invertire il processo, traendo beneficio dal trattamento farmacologico. La scienziata Sperling, che riferisce una positiva azione di Solanezumab nella fase precoce della malattia, sottolinea: “Amiloide da sola non basta a causare la malattia. In 2 anni abbiamo visto che si verificano enormi cambiamenti cognitivi nelle persone con accumuli della proteina tau. L’intervento deve precedere la perdita dei neuroni. Se riusciremo a ritardare anche solo di 5 anni la fase sintomatica dell’Alzheimer allungheremo la vita attiva dei malati.”
Qual è la sfida che gli scienziati devono vincere nella lotta per debellare il morbo di Alzheimer?
“Per trovare la cura efficace dobbiamo testare il giusto target, il giusto farmaco, il giusto stadio.”