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Nella motivazioni della sentenza Eni, gravi accuse alla Procura di Milano
Non era stato depositato agli atti un video realizzato dall'Avvocato Amara, dal quale emerge l'intenzione di Armanna di screditare l'operato di Eni
Nelle motivazioni della sentenza che ha assolto l'ad Descalzi e altri 14 imputati del processo ENI-Shell Nigeria ci sono durissime accuse nei confronti della Procura di Milano. Oltre alla mancanza di "prove certe ed affidabili dell'esistenza dell'accordo corruttivo", un presunto teste-chiave dell'accusa viene definito "imbarazzante" e le dichiarazioni del “grande accusatore” inattendibili o ondivaghe. Soprattutto, però, sono pesanti come macigni le parole dei magistrati Marco Tremolada, Mauro Gallina e Alberto Carboni sulle prove a discarico degli imputati "non depositate agli atti del procedimento" da parte della Procura.
Il riferimento è a un video girato dall'ex avvocato esterno di Eni Piero Amara, figura peraltro al centro dell'inchiesta sul presunto depistaggio di Eni sulle inchieste milanesi, sulla quale ancora in corso in indagini preliminari, nonché arrestato negli scorsi giorni dalla procura di Potenza per un'indagine sull'ex Ilva.
Nel video emergerebbe il ruolo di Vincenzo Armanna, il quale sarebbe stato intenzionato a "gettare un alone di illiceità sulla gestione da parte di Eni dell'acquisizione della concessione di prospezione petrolifera, in modo da ottenere - attraverso l'intervento di Amara - l'allontanamento dalla Nigeria di coloro che avevano partecipato al negozio".
Armanna in fase di indagini preliminari aveva parzialmente ritrattato le sue accuse, per poi riproporle invece in dibattimento, sostenendo di essere stato oggetto di pressioni da parte di funzionari Eni per il precedente cambio di versione: "Il comportamento ondivago di Vincenzo Armanna durante le indagini non integra un indizio a carico di Descalzi, o per lo meno un indizio grave e univoco", scrivono i giudici. Nel video inoltre Armanna ventilava la necessità di rimuovere alcuni dirigenti Eni in Nigeria per poter poi fare affari ai danni della società italiana.
Con la sentenza del 17 marzo scorso tutti gli imputati, più le società Eni e Shell, sono state assolte "perché il fatto non sussiste". L'accusa consisteva nell’aver pagato oltre un miliardo di dollari di tangenti per la concessione della Nigeria ai due gruppi petroliferi del giacimento off-shore Opl-245. La procura di Milano sosteneva che per lo sfruttamento di quel campo fossero stati pagati precisamente 1,092 miliardi di dollari di mazzette, versati su un conto del governo di Abuja. I fatti contestati andavano dal 2009 fino al 2014.
La Procura a luglio 2019 aveva chiesto la condanna di tutti gli imputati, che peraltro hanno sempre respinto le accuse, sottolineando che il prezzo dell'acquisto fu versato su un conto ufficiale del governo e che il successivo trasferimento di oltre un miliardo su altri conti, in particolare su quelli riferibili alla società Malabu dell'ex ministro del Petrolio Dan Etete, era al di fuori della sfera d'influenza delle società acquirenti.
"All'esito dell'istruttoria non è stato possibile ricostruire con certezza tutti i fatti oggetto dell'imputazione nonostante l'acquisizione di migliaia di documenti e l'esame incrociato di decine di testimoni e consulenti di parte - scrivono i giudici nelle loro motivazioni - Alcuni profili della vicenda restano in parte oscuri e possono essere oggetto di ricostruzioni probabilistiche e ipotetiche".
Per quanto riguarda il numero uno di Eni Descalzi "dalla lettura delle condotte specifiche manca il riferimento, anche solo nella forma attenuata della consapevolezza, alla condotta tipica della partecipazione agli accordi corruttivi che avrebbero determinato i pubblici ufficiali".
I giudici poi, dopo essersi detti d'accordo con la procura che il "denaro non tracciabile, movimentato" sia "una prova indiziaria del carattere genericamente illecito dei pagamenti derivati dai proventi" del blocco petrolifero, concludono però che "non è invece condivisibile l'assunto conclusivo che gran parte di tale somma in contanti, se non tutta, sia finita nella disponibilità dei pubblici ufficiali nigeriani che hanno reso possibile gli accordi illeciti".