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Politica
2 giugno 1946, istituzioni e regole: la forza ancora viva della Repubblica

2 giugno 1946, il giorno in cui l’Italia cambiò. La società, le regole, le Istituzioni, i simboli e il protocollo. Su Affari ecco l'analisi del cerimoniere di Stato Enrico Passaro che ha visto sfilare a Palazzo Chigi ben sette premier

*Enrico Passaro, già responsabile dell'Ufficio del Cerimoniale di Stato e per le Onorificenze della Presidenza del Consiglio dei Ministri che ha visto sfilare a Palazzo Chigi ben sette premier, da Silvio Berlusconi a Mario Draghi, passando per Mario Monti, Enrico Letta, Matteo Renzi, Paolo Gentiloni, Giuseppe Conte.

La data del 2 giugno ispira mille pensieri a chi è vissuto a contatto con le Istituzioni, ma anche, ne sono certo, al cittadino comune. Vien voglia di trasferirsi con una macchina del tempo nel 1946 e vivere, in un’ambientazione non dissimile da quella messa in scena da Paola Cortellesi per il suo delicatissimo “C’è ancora domani”, l’esperienza del cambiamento che quella data ha portato nel nostro Paese.

Eccoci dentro il 2 giugno 1946 e nei giorni che seguirono. Viviamo questa fantasiosa esperienza come la vivrebbe un addetto al cerimoniale di Stato, con tutte le ansie e preoccupazioni del suo mestiere. Cambierà tutto o non cambierà niente col risultato delle urne? O cambierà tutto perché tutto resti come prima, come direbbe Giuseppe Tomasi di Lampedusa? Quasi 25 milioni di italiani si recarono a votare per scegliere tra monarchia e repubblica. Erano circa l’89% degli aventi diritto. Percentuali, ahimè, d’altri tempi, chissà se le rivedremo più ai giorni nostri!

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Per la prima volta le donne entrarono in una cabina elettorale. Pensate l’emozione! Pensate che fino a quel momento non avevano mai avuto modo di esprimere le proprie preferenze politiche attraverso le urne, semplicemente perché alle donne non era riconosciuto il diritto di avere delle opinioni, politiche, ma non solo. Ebbene, questo sì è stato un cambiamento, altroché!

Quando si parla di 2 giugno si pensa al referendum. Risultati ufficiali: 12.718.641 italiani espressero la loro preferenza per la Repubblica, 10.718.502 voti andarono alla Monarchia. Due milioni di schede fecero la differenza. Ma non fu tutto lì il voto: i cittadini furono chiamati anche ad eleggere l’Assemblea Costituente. 556 eletti furono chiamati a riflettere, discutere, redigere ed approvare la Costituzione repubblicana. Tanto per ritornare sulla questione di genere, di questi le donne erano in tutto 21.

E se avesse vinto la monarchia? I costituenti avrebbero dovuto lavorare ad una Carta monarchica in sostituzione del vecchio Statuto Albertino del 1848? Con circa il 40% dei suoi membri fra socialisti e comunisti? Curiosa prospettiva, ma le cose andarono nel verso più coerente.

Alle ore 16,00 del 25 giugno l’Assemblea si insediò ufficialmente, eleggendo Giuseppe Saragat come Presidente. Ci sarebbe rimasto fino al 6 febbraio 1947, allorché si dimise per diventare segretario del neonato PSDI. Al suo posto a presiedere l’assemblea fu eletto Umberto Terracini. Il 28 giugno fu eletto al primo scrutinio come Capo provvisorio dello Stato Enrico De Nicola. “Capo provvisorio” e non “Presidente della Repubblica”, il titolo non esisteva ancora, perché non c’era ancora una Legge fondamentale che lo definisse tale. De Nicola firmò la Costituzione il 27 dicembre 1947 e acquisì il titolo di Presidente dal 1° gennaio 1948 per effetto della prima disposizione transitoria.

Bisogna dire che l’Assemblea Costituente aveva lavorato di buona lena: in un anno e mezzo circa aveva messo in piedi una delle più belle Carte fondamentali di uno Stato moderno e quella Carta era la nostra, era italiana, di un Paese che finalmente si affacciava alla democrazia.

Qui inizia il tormento del cerimoniere. Col referendum e con la Costituzione bisogna cambiare quasi tutto delle forme e dei comportamenti delle autorità pubbliche nelle cerimonie e nelle relazioni. Iniziamo dal Capo dello Stato. Pare che Luigi Einaudi, successore di De Nicola dal 12 maggio 1948, personalmente si dedicasse a stilare il cerimoniale della nuova Presidenza. Lo fece con la ferma intenzione di ridimensionare i fasti della monarchia, orientandosi su uno stile sobrio, senza però rinunciare alla solennità del ruolo affidato ad uno dei tre simboli fondamentali dello Stato. In quei mesi nascono le regole (quasi tutte non scritte), le prassi, le modalità con cui si celebrano gli eventi, si tengono relazioni internazionali, si gestiscono i passaggi procedurali per assicurare il funzionamento della macchina statale, a partire dalla cerimonia di giuramento del Capo dello Stato stesso e dai passi per giungere alla costituzione di un nuovo Governo. Quanta fatica per il cerimoniere, che si trovava a dover elaborare protocolli presidenziali di sana pianta. Non c’erano precedenti nella storia del Paese e pochi erano anche i riferimenti internazionali, specialmente in Europa, per buona parte retta dalle antiche monarchie.

E quanto si era dovuto lavorare anche per gli altri due simboli fondamentali: la bandiera e l’inno nazionale. Per la prima si provvide subito a rimuovere lo stemma di Casa Savoia dal campo bianco del tricolore. E si pensò di sancirne in Costituzione le sue caratteristiche. L’articolo 12 infatti riporta: “La bandiera della Repubblica è il tricolore italiano: verde, bianco e rosso, a tre bande verticali di eguali dimensioni”. In seguito, si provvederà a definire anche le tonalità dei colori pantone per caratterizzarla definitivamente.

Per l’inno tutto fu molto più complicato. Dal 2 giugno 1946 si stava arrivando rapidamente alla cerimonia delle forze armate del 4 novembre all’Altare della Patria. Ci si rese conto che, essendo improponibile la Marcia Reale, che era l’inno del regno, la repubblica non aveva ancora un suo inno nazionale. Scelta non facile, fra sostenitori contrapposti de “Il canto degli italiani” di Goffredo Mameli, la “Leggenda del Piave” di E.A. Mario, il “Va pensiero” di Verdi, l’ “Inno di Garibaldi” o l’ipotesi di un canto completamente nuovo. Il Governo De Gasperi decise infine in gran fretta, in un Consiglio dei ministri del 12 ottobre, di adottare “provvisoriamente”, in tempo per la cerimonia in piazza Venezia di 23 giorni dopo, l’inno di Mameli. Una provvisorietà, sappiate, che è durata fino al 4 dicembre 2017, allorché la legge n. 181 riconobbe formalmente e definitivamente il “Canto degli italiani” di Goffredo Mameli e lo spartito musicale originale di Michele Novaro quale inno nazionale della Repubblica. Per tutti questi anni i cerimonieri hanno continuato a far suonare il “Fratelli d’Italia” nei momenti ufficiali, sempre in attesa che si riconoscesse definitivamente e irrevocabilmente la sua qualifica di inno nazionale del nostro Paese.

Altre questioni dovettero essere affrontate dal punto di vista protocollare a partire da quella data del 2 giugno: dalla scelta dell’emblema (il famoso Stellone), alle onorificenze concesse dal Presidente della Repubblica, all’ordine delle precedenze nelle cerimonie, all’araldica pubblica e a tutte le prassi protocollari della vita dei rappresentanti delle Istituzioni. Tutti aspetti con contenuti simbolici importanti nel quadro della rappresentatività dello Stato. Andremmo troppo per le lunghe se ci mettessimo a descriverle una per una.

Terminiamo quindi questo tuffo nel passato della nostra storia repubblicana. Lo storico Guido Melis, in una bella pubblicazione in onore del grande prefetto Carlo Mosca, parla a proposito della nostra società attuale di “labilità della memoria, amnesia del passato”.

La Storia di una Nazione, il ruolo esemplare delle figure istituzionali che hanno contribuito e contribuiscono concretamente a realizzare i suoi contenuti ideali, il suo assetto formale, i suoi riferimenti normativi, la valorizzazione dei simboli e la sua organizzazione: tutto ciò costituisce la dignità dello Stato e la testimonianza di una coscienza collettiva. Le celebrazioni del 2 giugno si rinnovano ogni anno per questo. Sentiamole nostre, sentiamole vive, sentiamole come la forza della nostra democrazia.






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