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Politica
“Il complottismo? E’ inutile”. Parla Alessandro Campi
Prof. Alessandro Campi

Docente di Storia delle dottrine politiche, Scienza politica e Relazioni internazionali a Perugia, insieme con Leonardo Varasano (giornalista e collaboratore nella stessa università), Alessandro Campi ha scritto «Congiure e complotti - Da Machiavelli a Beppe Grillo» (Rubbettino, 2016). E, senza perdersi in elenchi letti e riletti (Scie chimiche e dintorni), spiega ad Affari Italiani come e perché nascono le teorie del complotto. Teorie che a differenza delle congiure - fatti storici, con soggetti concreti, contesti determinati e chiare finalità politiche – seguono altre logiche. Su altri binari e con tutt’altre conseguenze.

 

Professore, l’Italia è un Paese di complottisti?

«Francesco De Sanctis (1817-1883) diceva che una lunga consuetudine di tirannide aveva abituato l’Italia alla cospirazione: cioè a vedere dietro alla realtà sempre un possibile retroscena, un qualche segreto indicibile, oscuro. Una doppia verità. Essendo stati oppressi, per De Sanctis gli italiani avevano sviluppato una sorta di naturale diffidenza verso il potere. Ecco, questo spiega un po’ le nostre attitudini».

Lei indica il complottismo come fattore strutturale dei 5 Stelle. Ma il Movimento è in linea con la storia del Paese, quindi, o c’è qualcosa di più?

«Nel caso dei 5stelle si sommano una predisposizione della mentalità collettiva italiana (che dura da secoli) e un aspetto della cultura di massa radicato nella civiltà occidentale, specie negli ultimi anni. Mi riferisco alle più note teorie complottiste, che proliferano negli Stati Uniti e sono seguite in particolare dal pubblico giovanile. Grazie ai social media e alla rete alcune interpretazioni di fatti storici possono circolare con molta velocità. E circolando, autoalimentarsi: senza che ci sia mai un filtro correttivo. Si è fatta largo un’idea secondo cui il potere deve essere smascherato, a tutti i costi».

Ha fatto riferimento a Pasolini. Quando, riguardo agli Anni di Piombo, scrive «Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi» (Corriere della Sera, 14 novembre 1974), per lei è un irresponsabile?

«Si denuncia il potere senza poter mostrare le prove delle malefatte che gli vengono imputate. Quello di Pasolini è un atteggiamento paradigmatico. Il voler essere critici nei confronti del potere, lanciando una denuncia anche sul piano civile, che poi, però, diventa una forma di paranoia complottista. E’ chiaro che il potere non sia del tutto innocente; ma, con le accuse, dovrebbero essere addotte delle motivazioni, delle evidenze. Altrimenti non si sta esercitando un'azione dettata dallo spirito critico. Un conto, poi, che a dire certe cose sia Pasolini (un grande scrittore), un altro che un qualunque ragazzo dietro un pc sia mosso dalla volontà di arrivare a chissà quale verità».

Senza prove.

«E’ questo il punto: nella mentalità complottista, il fatto che non ci siano prove è la prova lampante che il complotto esiste. Una sorta di tautologia dalla quale è impossibile uscire: il complotto è tale da nascondere le prove. E quindi c’è a prescindere».

Ma qual è la linea di demarcazione tra il porsi criticamente verso la realtà (e la politica) e lo sconfinare nel complottismo?

«Diffidare dalle verità ufficiali è un buon esercizio intellettuale. Ma quando la dissidenza è permanente e si crede che la realtà sia sempre diversa da come appare, allora nasce la paranoia. Un circolo vizioso per cui qualunque cosa venga sostenuta da un governo o da un giornale o da fonte autorevole diventa falsa: il potere mente, per definizione, e coincide con la menzogna. C’è un retroscena da svelare, mettere a nudo. Una verità da gridare. E’ la cultura del sospetto; ed è molto pericolosa per una democrazia. Oggi il complottismo è diffuso più di quanto si pensi. In Italia c’è l’idea del Doppio Stato: qualunque cosa abbia a che fare con lo stato nasconde un livello segreto. Per esempio, che da noi possano o meno esserci stati rapporti opachi con la mafia, in certi momenti, autorizza a pensare che ci sia una sorta di apparato segreto, oscuro; o che mafia e stato siano la stessa cosa. La storia d’Italia viene letta come un continuo buco nero: dove noi, poveri cittadini, siamo stati vittime inconsapevoli. E’ un modo errato di analizzare il passato».

Dal punto di vista antropologico, perché il complottismo si sviluppa? 

«Il mondo è diventato molto complesso; pieno di circostanze su cui non riusciamo a darci spiegazioni plausibili. Una guerra, una crisi, un incidente non sono facili da analizzare, giustificare, o razionalizzare. Questo non lo sopportiamo, in nessun modo. Non riusciamo ad accettare che qualcosa accada indipendentemente da una precisa volontà. La nostra incidenza sulla realtà, infatti, è minima: siamo osservatori passivi. Davanti a un televisore veniamo continuamente bombardati da notizie. E questo genera frustrazione: da qui il bisogno di trovare, a tutto, un fine razionale. E allora spuntano le teorie complottiste. Che hanno un preciso vantaggio: spiegano l’inspiegabile. Sono meccaniche, semplici, una catena di eventi dove tutto torna. In breve, il complottismo supplisce a una nostra impotenza. E dietro tutti i complotti, che sono sempre gli stessi, o perlomeno si somigliano, c’è un grande colpevole da accusare».

Chi sono i colpevoli della storia?

«Il colpevole è sempre un'entità astratta, non una persona fisica. Un gruppo generico, sfuggente, e non un soggetto individuabile. La grande finanza, i gesuiti, la massoneria internazionale, gli ebrei, le banche, i poteri forti. Tutti collettivi a cui difficilmente è possibile dare un volto. Quindi: non solo mancano le prove, ma anche i soggetti concreti. Questo non vuol dire che nella storia non ci siano mai stati complotti e gruppi di potere. Però il complottismo non può (e non deve) essere considerato come il motore della storia. Non c’è qualcuno che muove i fili. E anzi convincendosene, in un certo senso, si finisce implicitamente per ammettere di non contare nulla».

Cioè?

«Se il mondo lo mandano avanti gli altri (sempre pochi, sempre nascosti, sempre temibili), a che serve la democrazia? Che incidenza può avere un cittadino? Tutto questo non fa altro che aumentare il senso di frustrazione. Ritengo ci sia una connessione, oggi, tra frustrazione, teoria del complotto, rabbia sociale e voto di protesta».

Frustrazione, rabbia sociale, voto di protesta. Un complottista che leggesse il suo libro, o quest’intervista, come reagirebbe?

«Direbbe che io ho preso parte al complotto. Nulla di nuovo. Nel complottismo c’è un forte elemento autoreferenziale: se non ci sono prove, proprio per questo, il complotto è provato; se qualcuno mette in dubbio il disegno complessivo, chiaramente, quel soggetto fa parte del complotto».

Come si combatte?

«Con lo studio e l'approfondimento. Ma soprattutto mostrando quanto sia inutile. Le teorie complottiste sono una falsa spiegazione: apparentemente esaustive, in realtà non rivelano nulla. O rivelano molto poco. Sono una forma di razionalismo perverso. Dovremmo riconoscere che le nostre facoltà di comprensione non sono illimitate. Non tutto può essere spiegato, o ricondotto a una ragione profonda. Nonostante internet, nonostante il progresso. In qualche modo, gli uomini dovrebbero rassegnarsi a non poter spiegare tutto. E non per questo credere in una misteriosa regia dietro le quinte».

 

twitter11@Simocosimelli

 

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