Politica
Giolitti, ma quale "ministro della malavita"! Lo avessimo oggi uno così
Ma quale “ministro della malavita”! Lo avessimo oggi uno come Giovanni Giolitti e la sua religione civile. Un libro rilancia la figura dello statista piemontese
Il giudizio che il molfettese Gaetano Salvemini (1873 – 1957) aveva letteralmente scagliato contro Giovanni Giolitti (1842 – 1928) è notorio a tutti: “Ministro della malavita”, per denunciarne i metodi mafiosi di governo, specialmente ad ogni tornata elettorale, quando si trattava di vincere le elezioni; in particolar modo nel Mezzogiorno d'Italia, spingendo ad entrare in azione i suoi mazzieri che, con subornazioni violente, orientavano in senso a lui favorevole le opinioni e i convincimenti degli aventi diritto al voto, iscritti nelle liste elettorali.
Di contro, Giovanni Ansaldo (1895 – 1969) riferendosi alla condotta politica di Giolitti, tenuta negli anni della sua presidenza del Consiglio, lo definisce, con un'espressione altrettanto seccamente tranchante, come quella pronunciata da Salvemini ed agli antipodi esatti di quella: “Ministro della buona vita”, per gli innegabili traguardi raggiunti dall' “Italietta” nel periodo immediatamente a ridosso della conclusione positiva del movimento risorgimentale italiano, il 17 marzo del 1861. Allorchè, nell'aula di Palazzo Carignano, a Torino, sede del Parlamento Subalpino, venne proclamata la nascita del novello Regno d'Italia, sotto l'egida protettiva del sovrano Vittorio Emanuele II di Savoia, lungimirante pronùbo, il conte Camillo Benso di Cavour che, per poter giungere a quella realizzazione, sotto alcuni aspetti davvero impensabile, aveva profuso, fino a morirne, tutte le proprie forze virili.
“... Giolitti mirò a conferire allo stato maggiore (della Pubblica Amministrazione, n.d.s.) dignità ed efficienza con la riorganizzazione dei ministeri civili, il potenziamento di province e comuni e il testo unico sullo stato degli impiegati civili: punto di arrivo di un cammino intrapreso fin dai tempi di Minghetti e Sella e proseguito con Crispi per dar corpo a una dirigenza pubblica orgogliosa della propria 'missione', ispirata a una vera e propria 'religione civile'..., incardinata sul culto della maestà dello stato” (p. 353).
Ora, a riequilibrare, tra le opposte affermazioni, il giudizio sullo statista monregalese è intervenuta, tempestivamente ed a proposito, una ponderosa pubblicazione di Aldo A. Mola, Giolitti. Il senso dello Stato, Santarcangelo di Romagna, Rusconi Libri, 2019, pp. XXII – 620, 16 tavole f. t.
Le pagine del saggio, tutte dense e sapide!Tutte intelligenti e sorvegliate, come del resto meritavano pienamente l'uomo, il politico, lo statista Giovanni Giolitti che, fors'anche non volendolo scientemente, ha improntato di sé un'intera facies della vita politica e dello svolgimento della quotidianità civile ed economico-finanziaria della nazione italiana, fornendo ad essa quella precisa identità che gli statisti che lo avevano preceduto, nella direzione del governo -mi riferisco qui, tra gli altri, a Minghetti, Depretis, Crispi- per molteplici circostanze evenemenziali, non erano stati in grado di “costruire”. Identità che, seppure propiziata da secoli di storia, nel bene e nel male, tra fortunose vicende ed esaltanti intermezzi di splendore, l'intero orbe terracqueo ci invidia: letteramente!
Ora, è lecito chiedersi, è scontato chiedere chi sia stato davvero questo personaggio che, nel corso della storia d'Italia, ha gestito le sorti di un popolo intero come, per dirla con l'Alighieri, una sorta di bonario archimandrita. Il quale, per un ventennio pieno, ha guidato, dominato e predominato sulla nazione italiana. La risposta che fornisce Aldo Alessandro Mola è quella dell'indiscusso prim'attore il quale, anche negli jati che punteggiavano la sua carriera ministeriale, rimaneva sempre e senza remora alcuna, l'asse portante intorno al quale giostrava tutta la vita amministrativa e politica del giovane Regno che si affannava, spesse volte compiendo disastri, a volersi iscrivere nel novero privilegiato delle grandi potenze europee senza averne le doti adatte, la sostanza economico-finanziaria e la spregiudicatezza necessaria che carattertizzava gli altri stati del Continente pervenuti alla pienezza ed alla maturità statuale ormai da più secoli e con chances più convincenti e pervasive.
Giovanni Giolitti non è stato soltanto a suo modo -come è scontato che fosse- ma, altresì, oggettivamente, un grande presidente del Consiglio, uno statista di prestigiosa vaglia internazionale, tanto da divenire una specie di arconte eponimo -secondo la dimensione ellenica degli organigrammi governativi della civilissima città-stato di Atene- dell'epoca nella quale ha esercitato il proprio mandato governativo: quella che tutti gli storici riconoscono, de plano, senza difficoltà logica e, di certo, filologica alcuna, essere stata “l'età giolittiana” per la misura originale che essa, a tutto tondo, presenta, ma anche e, molto probabilmente e soprattutto, per aver fornito i mezzi essenziali ed imprescindibili per ampliare ulteriormente il parterre elettorale e la base democratica sulla quale doveva “riposare” ancora di più la Monarchia Costituziuonale italiana. Impersonata, in quei momenti storici, dal re Vittorio Emanuele III di Savoia, asceso al trono del Regno d'Italia dopo la tragica scomparsa del Genitore, Umberto I, causata dall'attentato dell'anarchico G. Bresci, il 29 luglio del 1900, a Monza.
Aldo Alessandro Mola, con la sua narrazione vivace, fluente degli avvenimenti, non fa soltanto partecipe il lettore di uno scampolo, sia pure ampio ed articolatamente complesso della recente storia politica, sociale, economica dell'Italia, ma lo pone intelligentemente in grado di poter agire ed interagire con tutti gli altri attori che pullulano nelle pagine del saggio-monstre sebbene, ad una lettura disincantata e, vieppiù, smaliziata, si rivela una accondiscendenza simpatetica dai risvolti, quasi subliminali, della conterraneità tra biografo e biografato. Aldo Alessandro Mola è nato a Cuneo, terra che rappresenta la culla della dinastia sabauda; fatto molteplici volte evidenziato nel volume. Giolitti, a sua volta, in Mondovì, provincia di Cuneo, ed in seguito felicemente vissuto nella cittadina di Cavour, sempre compresa, questa, nella stessa circoscrizione provinciale cuneese. Può sembrare, la mia, una ossservazione maliziosa, e forse lo è. Però, era necessario porla in evidenza anche per affermare, apertis verbis, che essa non costituisce affatto un limite storiografico dello studio rigorosamente condotto a termine da Mola, che ha basato ogni passo delle proprie riflessioni storiche e critiche su documenti assolutamente di prima mano -come le lettere private dello stesso Giolitti alla consorte, Rosa Sobrero, chiamata affettuosamente “Gina” oppure “Ginotta”, alla quale il Presidente del Consiglio narrava minuziosamente ogni aspetto, spesse volte, anche decisamente secondario, della propria giornata non soltanto di uomo politico ma altresì di ministro e di primo ministro- che, forse, non avrebbe potuto avere a disposizione se l'Autore fosse stato originario di un'altra e qualsiasi provincia d'Italia. E ciò è stato assolutamente un bene per la storia italiana contemporanea, in particolare, e per quella, più ad ampio spettro, dell'Europa continentale che, da questa sorta di coniugio geosentimentale ed endoganico, ha tratto impareggiabili benefici che altrimenti sarebbero, per causa di forza maggiore, risultati preclusi per altri analisti di storia. E questo, per la completezza degli studi, sarebbe stato grave, e, per ciò stesso, irreparabilmente dannoso.