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Politica

Di Massimo Falcioni

Con disinvoltura, Matteo Renzi passa dall’acceleratore al freno, a seconda delle proprie convenienze politiche. Su un passaggio fondamentale quale il referendum costituzionale – visto da alcuni anche all’estero come la Brexit - il premier aveva lanciato sei mesi fa in Parlamento la sua sfida dal sapore di una minaccia: “Andremo casa per casa per vedere da che parte sta il popolo: se la pensa come quelli che scommettono sul fallimento o su chi scommette sul futuro dell’Italia”. Era l’avvio dello storytelling, di fatto l’uso abnorme della comunicazione strumentalizzando con demagogia e populismo una questione reale, facendo diventare il referendum la madre di tutte le battaglie, una sorta di regolamento dei conti dentro e fuori il Partito democratico, un plebiscito pro o contro Renzi, il suo governo, il suo Pd paventando in caso di sua sconfitta, il disastro.

Oggi, vista la malaparata, con un Pd malridotto per le inarrestabili beghe interne e con il “Sì” in calo, Renzi ha già fatto un mezzo passo indietro ammettendo l’errore nell’aver personalizzato la battaglia del referendum. Il segretario-premier non è stato colto dalla saggezza del dubbio rifiutando l’orgoglio delle certezze ma ha semplicemente fatto i conti della … serva dove due più due fa quattro, con il forte rischio della sconfitta del “Sì” e, comunque, con lo tsunami del non voto, con un Paese ancora più spaccato, più deluso, più chiuso in se stesso. Renzi sa che la sua vera zavorra è il Pd, partito sintesi del peggio della prima Repubblica, sa che il suo “cerchio magico” è composto da comandanti nominati – senza nessun esercito dietro - dediti a rimirar mostrine ricevute d’ufficio per meriti di obbedienza, sa che non dispone neppure di volontari per le feste de l’Unità, figurarsi di volontari che nei prossimi due-tre mesi possano battere palmo a palmo il territorio nazionale e bussare casa per casa portando, con scarsa credibilità dovuta alla scarsità dei risultati dell’esecutivo, la lieta novella del “Sì” salva Italia. Ma Renzi, per nulla propenso ad esercitarsi nell’arte dell’umiltà, non è un politico loffio, tanto meno sprovveduto che non misura le proprie forze, né un temerario che volteggia sul trapezio senza la sicurezza del telo sotto. Anche di fronte al rischio di flop Renzi non farà, nel merito del referendum, nessuna concessione di fondo, tanto meno tendendo la mano a chi, come Parisi del centrodestra, propone una “tregua”, una via d’uscita puntando su una Assemblea costituente per dare sbocco alle riforme istituzionali.

Matteo farà in modo che la corda, già tesa, giunga al limite della rottura.  Passato agosto, chiuse le ferie, gli italiani si ritroveranno con tutti i nodi di prima e il premier, invece di mediare e venire a patti con i suoi avversari, a cominciare dalla minoranza interna del Pd, rilancerà con ancor più veemenza la propria linea politica buttandosi ventre a terra in una campagna elettorale lacerante. Come? Non farà, certo, affidamento sul proprio partito. Per la chiarezza progettuale, per le sue fibrillazioni interne, il pidì è oggi una armata Brancaleone, con drappelli incarogniti l’un contro gli altri armati, in mano a capi bastone, per lo più comitati elettorali in una commistione politica-affari dai contorni assai nebulosi e contorti.

Il partito di lotta e di governo resta lo slogan del Pci berlingueriano nei cassetti chiusi dove si è  da tempo gettata la chiave. Renzi sa tutto questo e sa che solo insistendo nel refrain del “Paese che svolta” e  muovendo, quasi indisturbato, i fili del potere di Palazzo Chigi può vincere una battaglia a forte rischio. Renzi non invierà i suoi a bussare casa per casa ma tornerà a presentarsi agli italiani con un acceso bombardamento mediatico quale paladino delle riforme e del referendum linea di demarcazione fra il bene e il male, tra uscita dal tunnel e buco nero e su misura delle varie fasce sociali degli italiani. Dimostrando che il governo, per il bene degli italiani e per evitare al Paese il salto nel buio, deve proseguire nel “work in progress” e al contempo battendo sul tasto delle promesse e allargando i cordoni della borsa, in barba al deficit fuori controllo. Come? Facendo ciò che altri hanno fatto prima di lui con il “do ut des”, emulando Achille Lauro a Napoli: la scarpa sinistra prima del voto e la scarpa destra dopo il voto. Non va in questa direzione la sparata che se passa il Sì i 500 milioni risparmiati con le riforme verranno dati ai poveri? Chi rifiuterebbe, alla vigilia di un rigido inverno, qualche “regalino” del governo? La lista d’attesa è lunga: pensionati, dipendenti pubblici, grandi lavori pubblici, contratti della Pa, insegnanti, rimborsi per i truffati di vario tipo banche ecc. Chi manderebbe a casa, poi, un governo che riesce a evitare lo spettro del terrorismo? L’elenco può proseguire ma ci fermiamo qui. Nel conto, Matteo ha messo pure l’eventualità del ko al referendum e una sua uscita di scena… momentanea, con l’ingresso di un nuovo governo-ponte (tecnico) pro tempore, prima di Natale, chiamato a spremere gli italiani con una manovra finanziaria da lacrime e sangue. A quel punto le urne del 2018 (in primavera o poco più in là) potrebbero davvero riportare Renzi a Palazzo Chigi, stavolta in pompa magna, con il voto degli italiani decisi a riprendersi l’usato… “sicuro”. Come dire, niente di nuovo all’orizzonte.    

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