Sport
Da Mandela al caso Blake: quando lo sport scende in campo per fare politica
Il coraggio di assumere posizioni "divisive" si diffonde tra aziende e protagonisti dello sport, un tempo molto cauti. E i risultati sono formidabili
di Lorenzo Zacchetti*
Per quanto clamoroso, lo stop dello sport americano per protesta contro il brutale ferimento di Jacob Blake da parte della polizia del Wisconsin, non è certo un fatto inedito. La memoria va immediamente al “kneeling” della calciatrice Megan Rapinoe e, prima ancora, del giocatore di football americano Colin Kaepernick, entrambi capaci di far infuriare Donald Trump più di qualunque altra protesta dei Democratici.
Altrettanto significativo fu l'ingaggio di Kaepernick come testimonial di Nike, a testimoniare come il fenomeno della “politicizzazione del marketing” stesse ribaltando gli schemi abituali e, soprattutto, l'antica propensione dei brand a non assumere posizioni divisive. Lo stesso sta accadendo nello sport, dove i silenzi imbarazzati e le risposte a monosillabi dei calciatori di fronte alle domande meno scontate si trasformava in chiusura totale laddove l'interlocutore osasse sondarne eventuali convincimenti in campo sociale e/o politico.
Quello del calciatore che pensa solo al pallone è un luogo comune, soprattutto in Italia. Il problema è che sono in pochi quelli che ne parlano volentieri. Un caso famoso, negli anni Settanta, fu quello di Paolo Sollier, attaccante del Perugia del quale si parlava più per l'abitudine di salutare i tifosi col pugno chiuso che per i gol segnati.
A lungo considerato una mosca bianca, a un certo punto trovò in Giancarlo Raffaelli, iscritto al PCI, un “compagno” non solo di squadra. In un'intervista del '76 ne parlò in modo davvero illuminante: “Non siamo noi ad essere strani, ma chi mitizza questo mestiere e si stupisce del fatto che io legga Cesare Pavese o Evghenij Evtushenko. Il problema è che ci siamo adeguati alla dimensione superlativa in cui ci pongono i tifosi, i giornali, la radio e la televisione. E’ colpa nostra se i giocatori di calcio, in genere, sono dei superficiali, dei qualunquisti che non hanno e non vogliono avere idee politiche. E, se le hanno, sono come Wilson, Chinaglia, Facchetti o Mazzola: cioè di destra, o tutt’al più della DC”.
Dal laziale Luciano De Paola allo juventino Lilian Thuram, dal destrorso Paolo Di Canio al sinistrorso Cristiano Lucarelli, anche nel calcio italiano non sono mancati gli esempi di atleti che, in un modo o nell'altro, hanno intrecciato la propria figura pubblica con le rispettive idee politiche.
Lo sport, in quanto fattore di unificazione nazionale, è stato fondamentale anche nel cementare il potere di alcuni regimi, come quello di Francisco Franco in Spagna e di Benito Mussolini in Italia: fu proprio il fascismo a introdurre il campionato di Serie A a girone unico come lo conosciamo oggi, chiudendo con un'era di regionalismi e campanilismi ben poco graditi al potere dell'epoca.
Su un versante completamente differente, lo sport è stato utilizzato anche da Nelson Mandela nel complesso processo di riunificazione del Sudafrica dopo gli anni bui del'apartheid. Con una mossa non scontata, il leader nero diede il suo appoggio alla nazionale degli “Springboks”, impegnata nel mondiale di rugby che si sarebbe disputato proprio in Sudafrica e che raccoglieva l'entusiasmo soprattutto dei bianchi, per ragioni storiche: erano stati i colonizzatori britannici e olandesi a diffondere la palla ovale, la cui rappresentativa sudafricana ancora a metà anni Novanta annoverava un solo giocatore di colore.
I neri erano più orientati a seguire il calcio, anch'esso importato dagli inglesi, ma considerato “meno nobile” del suo illustre cugino. La doppia vittoria del Sudafrica nel mondale di rugby del 1995 (quello raccontato dal film “Invictus”) e nella Coppa d'Africa di calcio del 1996 fu un passaggio fondamentale per la nascita della “rainbow nation”, rispecchiata anche nel curioso mix di lingue e colori alla base del nuovo inno nazionale e delle divise delle nazionali sportive.
E lo straordinario potenziale dello sport è stato ribadito dallo stesso Nelson Mandela nel corso del suo intervento nella prima edizione dei Laureus World Sports Awards, nel 2000: “Lo sport ha il potere di cambiare il mondo. Ha il potere di ispirare. Ha il potere di unire le persone in un modo che pochi altri posseggono. Parla ai giovani con un linguaggio che loro comprendono. Lo sport può creare speranza laddove prima c’era solo disperazione. E’ più potente dei governi nell’abbattere le barriere razziali”.
*Autore del libro “Cambiare il mondo con un pallone - Da Nelson Mandela a Megan Rapinoe, da Diego Maradona a Che Guevara: quando in gioco c’è l’identità”, pubblicato da Ledizioni (www.ledizioni.it). Nel testo, in vendita dal 4 settembre, si esplora la stretta relazione tra le squadre di calcio le questioni sociali, politiche ed economiche dei rispettivi territori di riferimento