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Usa. Instagram, piacere solitario che nasconde la solitudine della nostra era
Intervista a Raffaele Lovaste, direttore Istituto Europeo per il trattamento delle dipendenze
‘Instagram al tramonto’ edito da ‘La nave di Teseo’ è il nuovo libro di Paolo Landi, riconosciuto manager della comunicazione. Un libro che pone sul tavolo molti interrogativi a proposito dell’uso, consapevole e non dipendente, dei social network.
Ed a proposito della dipendenza da social network abbiamo incontrato a Miami, il dottor Raffaele Lovaste, direttore dello IEuD ( Istituto Europeo per il trattamento delle dipendenze), in trasferta di lavoro negli Stati Uniti.
Instagram, il piacere solitario che nasconde la solitudine della nostra era
E con lui abbiamo voluto proprio parlare di Instagram, del bello e del brutto di uno dei social più amati.
Dottor Lovaste, cos'è Instagram?
Instagram è un gioco. Un gioco virtuale. Un gioco apparentemente sicuro che permette al nostro protagonismo infantile di riemergere attraverso le immagini.
Chi lo ha inventato ha intuito che la solitudine sarà sempre più una condizione elevata a sistema di vita per cui l’interazione virtuale delle persone nei social produce un piacere solitario.
E' un gioco che provoca piacere?
Su Instagram nulla esiste al di fuori del presente. Il piacere o la gratificazione che si generano quando qualcuno mette un “like” ad una nostra foto rapidamente scompare sostituito da qualcosa di altro: il ricordo, la delusione, il rimorso o, semplicemente un frammento di vita vissuta e dimenticata.
Quindi è un piacere effimero?
Su Instagram tutto si crea e tutto si distrugge in una frazione di secondo senza lasciare traccia. Ecco perché su Instagram non si generano storie ma mosaici di immagini che non si fondono in un racconto. Le persone su Instagram vivono in un eterno presente come l’unica dimensione di vita possibile.
Instagram, il piacere solitario che nasconde la solitudine della nostra era
Su Instagram tutti sembrano felici.
‘La felicità per Instagram esiste ed è a portata di mano. Tutti possono essere o sembrare felici. La felicità può essere esibita senza pudore. La nostra felicità la condividiamo con i follower perché fanno parte della nostra vita, pur essendo fortunatamente lontani da essa.
La sofferenza invece è più intima e non può essere sbandierata. Rarissimamente vediamo foto di una persona sofferente. Chi vuole farsi vedere mentre soffre? Quindi se sei su Instagram devi essere felice. La felicità ostentata è come un bellissimo velo che tutto copre. Un velo per nascondere la fatica di vivere. La felicità ostentata allora è il travestimento adottato per apparire diverso da quello che si è’.
Cosa c'è di male a essere o sembrare felici?
‘Niente, infatti. Piacere e gratificazione sono due parole usate spesso come sinonimi anche se corrispondono a sensazioni diverse. Piacere e gratificazione sono indispensabili per la nostra salute mentale e le strade per ottenerle sono tante. Instagram ci offre una strada facile a portata di tutti, legale e apparentemente sicura. Naturalmente non tutte le strade sono ugualmente pericolose e nessuna strada è completamente sicura’.
E quando scatta la "dipendenza"?
‘La sensazione di piacere o la gratificazione di Instagram sono assimilabili, nel senso che si generano nelle stesse aree cerebrali, a quelle indotte dall’ alcool, dalle “canne”, dalla cocaina o dall’eroina. L’avidità compulsiva, la coazione cioè a scorrere incessantemente le immagini, il distacco dalla realtà in cui precipita la persona passando da un profilo all’altro, l’attrazione totale e morbosa per quello che vede, ricorda, lo stato di trance presente in chi consuma pornografia.
Instagram è gratuito ma il denaro e l’economia sono alla base della nascita e dell’esistenza stessa di questo social. Il mercato ruota intorno al desiderio sempre più irrefrenabile delle persone che lo usano. Nell’ambito delle dipendenze si chiama “craving” ovvero il desiderio al di sopra della volontà.
Ma accade anche nella vita reale, non solo su Instagram
‘Qualcosa di diverso ma, nella sostanza simile? Il rito dell’aperitivo.
La sera dopo una dura giornata di lavoro tanta gente si concede un aperitivo. Dicono: è solo un rito, un modo per chiudere la giornata, la vita è piena di riti che male c’è? Poi serve anche per socializzare. Non ci sono rischi. Di cosa si parla durante questo rito? Di tutto e di niente. A dire la verità le persone bevono, parlano tanto e pensano poco.
Ci sono persone che ci guadagnano con questo rito? Che male c’è? Ma ci sono anche persone che hanno iniziato così e poi sono diventate dipendenti dall’alcol. Probabilmente sono persone deboli, a quelle forti non succede.
E’ vero che tutte le persone dipendenti da alcol hanno iniziato con un bicchiere ma è altrettanto vero però che non tutte le persone che bevono un bicchiere, anche se hanno iniziato da giovani, diventano alcolisti.
Dove sta la differenza allora? Nell’equilibrio e nella capacità di chiedere aiuto se si perde il controllo della propria vita’.