Bonus psicologo e salute mentale, come superare lo stigma... anche con un film
Perché “Marilyn ha gli occhi neri” è un pezzo importante di un cambiamento culturale del quale c'è molto bisogno, soprattutto dopo il dramma del Covid
Un italiano su tre ha problemi mentali
Con l’introduzione del bonus psicologo nel decreto “Milleproroghe” si è posto rimedio a un grossolano errore commesso in sede di legge di Bilancio, quando il governo aveva stralciato questa tipologia di sostegno da una lista che invece prevedeva bonus per i monopattini e persino per le terme. Possibile che ci fossero fondi per questi interventi, rispettabilissimi, ma non per la tutela della salute mentale? Se lo sono chiesto, a ragione, anche gli studenti scesi in piazza per manifestare tutto il loro disagio, ma purtroppo quell’imbarazzante scivolone è stato coerente con anni di sottovalutazione e occultamento del problema. La malattia mentale è davvero molto diffusa: in Italia ne soffrono circa 20 milioni di persone, ovvero un cittadino su tre. Eppure parlarne è ancora molto difficile. È sempre presente lo stigma che riguarda questo tipo di sofferenza, fattore che induce i pazienti e i loro familiari a nascondere il proprio disagio, per via di una vergogna tanto castrante quanto assolutamente immotivata. Nessuno si sente in colpa se gli viene diagnosticato un disturbo al cuore, alle ossa o ai polmoni, ma se il problema riguarda un organo ancora più delicato come il cervello, subentra una vera e propria fobia sociale.
“Marilyn ha gli occhi neri” e il suo messaggio contro lo stigma
“Se uno sta male, la gente ha paura”. E’ un’efficace battuta di “Marilyn ha gli occhi neri”, delizioso film diretto da Simone Godano che proprio in questi giorni è disponibile su Netflix e NOW. La storia ruota proprio intorno allo stigma. Un gruppo di pazienti psichiatrici viene incaricato da un medico lungimirante (Thomas Trabacchi) di gestire un ristorante, che diventerà il loro punto di contatto con il mondo esterno. In cucina c’è uno chef costantemente preda di violenti attacchi d’ira (Stefano Accorsi) e a servire ai tavoli c’è una cameriera che insulta tutti perché soffre della Sindrome di Tourette (Orietta Notari). Le cose procedono con una certa fatica, fino a quando la mitomane Clara (Miriam Leone) non si inventa mirabolanti recensioni sul locale: attirati dalla “hype” mediatica, i clienti arrivano numerosi al ristorante e, ignari della malattia mentale di chi lo gestisce, ne decretano il successo.
I giovani e il disagio
Quello di “Marilyn ha gli occhi neri” è un modo nuovo, allo stesso tempo realistico e delicato, di parlare di un tema che da sempre ispira il cinema, spiegando senza tante parole come le etichette possano forse classificare le malattie, ma non certo le persone che ne soffrono. Un messaggio, peraltro, che serve più a noi adulti che ai giovani: a dimostrarlo non sono solo gli studenti italiani che non si vergognano di sottolineare il loro disagio post-Covid, ma anche i ragazzi americani che hanno imparato a non aver paura della malattia mentale e quindi a essere sempre più inclusivi nei confronti di chi ne soffre: lo hanno evidenziato sia la recente ricerca del Consortium for Mental Health Services Research dell’Università dell’Indiana che il rapporto “Trends in Public Stigma of Mental Illness in the US, 1996-2018”.
I danni del Covid sulla salute mentale
In questo processo culturale vanno accolti con grande favore non solo i messaggi di “Marilyn ha gli occhi neri”, ma anche quelli di personaggi famosi come Harry (il duca di Sussex) Fedez, Chiara Ferragni, Bella Hadid e Naomi Osaka, che hanno deciso di parlare pubblicamente delle loro tribolazioni interiori. Le loro rivelazioni hanno certamente aiutato chi soffre di problemi analoghi a sentirsi meno solo e, soprattutto, a comprendere che non c’è proprio nulla da nascondere. Al contrario, la capacità di riconoscere un problema e di chiedere aiuto è il primo passo per risolverlo. Tuttavia, la spinta più forte a considerare lo stigma sociale come un’improduttiva eredità del passato dovrebbe arrivare dai due anni della già citata pandemia di Covid. I dati pubblicati da “The Lancet” sottolineano come lo scorso anno i casi di disturbi depressivi e d’ansia siano aumentati di più di un quarto. Gli adolescenti sono i più colpiti: uno su quattro manifesta sintomi di depressione e uno su cinque soffre di disturbi d’ansia, una statistica che accomuna l’Italia al resto del mondo.
Perché andare dallo psicologo non è un lusso
Se è facile capire come lo stress pandemico abbia segnato chi lo ha vissuto, colpisce ancora più lo studio del Morgan Stanley Children’s Hospital di New York, secondo il quale i neonati di questa fase storica presenterebbero più problemi di chi è nato prima della pandemia: anche se la mamma non si è infettata, il suo disagio psicologico è stato trasmesso anche al feto, con la possibilità di rallentare l’apprendimento motorio e cognitivo del bambino durante la crescita. Persino più sorprendente è la ricerca della Washington University di Saint Louis, secondo la quale chi ha avuto il Covid ha il 60% di rischio in più di sviluppare disturbi mentali, con ansia e depressione che si manifestano entro un anno dalla fine della malattia. Tra gli addetti ai lavori si parla di una vera e propria “crisi della salute mentale globale” verificatasi durante la pandemia. Nessuno può considerarsi immune da tale rischio, come dimostrano gli allarmanti dati riguardanti nello specifico il nostro Paese: il 31% degli italiani soffre di depressione, il 32% di ansia e il 41% di “distress”. Questo per quanto riguarda la popolazione generale, mentre se si analizza il dato di chi ha è stato contagiato dal Covid i numeri salgono in modo impressionante. Ancora una volta i più segnati sono i giovani: il 48% dei minorenni manifesta sintomi post-traumatici. In una situazione così difficile, un cambio di passo era davvero necessario. Fino ad oggi la cura mentale era considerata o una necessità dei “matti” (che hanno a disposizione gli psichiatri, ovvero dei medici) o un vezzo da benestanti viziati, un po’ alla Woody Allen, e quindi pagarselo di tasca propria ne era la logica conseguenza. Siamo un Paese che si distingue nel mondo per il suo sistema sanitario universalistico – un valore che spesso fatichiamo a riconoscere – e con questo passo oggi inseriamo nel diritto alla cura anche quella psicologica. Considerarla ancora un lusso, soprattutto dopo due anni di Covid, sarebbe stata davvero… una follia.
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