Costume
Dress code e sessismo, dalle gonne del liceo romano ai vestiti delle ministre
La narrazione dei casi mediatici più noti tra commenti, polemiche e prese di posizione. I tempi cambiano, ma le modalità no
Il caso del liceo Socrate di Roma
"Meglio non indossare le gonne troppo corte, altrimenti a qualche prof potrebbe cadergli l'occhio". E' così che la vicepreside del liceo Socrate di Roma ha richiamato un gruppo di studentesse, esortandole a mantenere, tra le mura scolastiche, un dress code “appropriato”. L’evento, oltre ad avere generato un grande impatto mediatico su tutti i mezzi di comunicazione, è stato un momento di iniziazione di differenti mobilitazioni.
Prima fra tutte quella ideata dalle studentesse del Socrate, presentatesi il giorno seguente in aula con minigonne, top e vestitini, mostrando il loro totale dissenso alle parole della vicepreside. Non sono mancati poi cartelloni e scritte sui muri, volte a rimarcare la completa presa di distanza da parte dei giovani: “Non è colpa nostra se gli cade l’occhio”, "#stopallaviolenzadigenere". Istantanee sono state anche le risposte ufficiali da parte del Ministero dell’Istruzione e del preside del Socrate. Il primo ha voluto subito far luce sull’accaduto, chiedendo un approfondimento all’ufficio regionale del Lazio. Il secondo, Carlo Firmani, ha dichiarato di essere pronto a fare tutti gli accertamenti del caso, rivendicando l’attenzione del liceo verso le individualità, libertà e opinioni altrui.
Teresa Bellanova e le polemiche sull'abito blu
Ma le polemiche su dress code e sessismo non sono né nuove né poco abituali. Era il settembre del 2019, quando appena nominata ministra dell’Agricoltura, Teresa Bellanova aveva ricevuto commenti poco gradevoli sul conto del suo abito azzurro a balze. Dal vestito si è poi divagato sulla corporatura, il fisico e il grado di istruzione. La ministra, in occasione dell’accaduto, aveva ribattuto con un semplice tweet: “La vera eleganza è rispettare il proprio stato d’animo: io ieri mi sentivo entusiasta, blu elettrica e a balze e così mi sono presentata", zittendo gli hater con classe ed eleganza.
Diverse sono state le risposte pubbliche di sostegno e solidarietà, dal wedding designer Enzo Miccio: “Accessori in tinta con il piccolo torchon che incornicia lo scollo dell’abito. Per me Teresa Bellanova è EnzoMiccioApproved”, alla deputata di Forza Italia Mara Carfagna: “La ministra #TeresaBellanova ha dimostrato impegno e competenza fin dalla più giovane età. Si vergogni chi la insulta per l’abito, l’aspetto e il titolo di studio".
Silvia Romano
Silvia Romano e il jilbab verde
O ancora, a maggio 2020, lo scoppio del caso Romano è un’ulteriore dimostrazione dell'eccessiva enfatizzazione in tema di dress code femminili. La giovane cooperante milanese Silvia Romano, appena rientrata in Italia dopo un anno e mezzo di prigionia tra Kenya e Somalia, viene messa in croce per essersi mostrata per la prima volta con un vestito verde, lungo fino a piedi.
Si tratta in termini tecnici di un jilbab, una veste tipica delle tribù africane stanziate in quelle zone. Gli insulti, in questo caso, non sono ricaduti su colore e forme, bensì sull’eventuale connotazione religiosa che avrebbe potuto avere l’abito. In molti l’hanno infatti reputata “traditrice”, appellandola in senso dispregiativo in quanto” islamica costretta alla conversione”.
La narrazione è sempre e solo una
Ma chi fomenta queste posizioni non è solo il leone da tastiera di turno, senza identità e referenze, bensì anche volti noti, presenti in svariate trasmissioni popolari. Non è così raro vedere personaggi pubblici apparire in televisione o radio e sostenere tesi come quella che se una donna esce di casa e gli uomini non le mettono gli occhi addosso, deve preoccuparsi.
Una donna, un vestito e un soggetto esterno che si arroga il diritto di giudicare, è questa la costante narrativa dei casi mediatici che hanno riscosso maggior clamore negli ultimi anni. Cambiano i tempi, i volti e le circostanze, ma non il modus operandi. Se l’abito davvero non fa il monaco, è altrettanto vero che definisce, molto spesso in senso dispregiativo, soprattutto le donne.