Cronache
Coronavirus poca trasparenza dati. Cosa può accadere ora. Intervista a Foresti
Siamo davvero pronti a una nuova ondata? Sembra di no. Manca un piano e i dati sono poco trasparenti. Mascherine:perché all’inizio ci hanno detto di non usarle?
Cosa aspettarci ora? Ritorno alla normalità o staremo ancora sotto scacco del Coronavirus?
Ne abbiamo parlato con Luca Foresti, amministratore delegato del Centro medico Santagostino, rete di poliambulatori specialistici. E' un fisico laureato alla Normale di Pisa. Più volte il suo nome è stato associato anche all'app Immuni, anche se in modo non del tutto corretto. Foresti è asceso alle cronache per uno studio su Nembro nel bergamasco, il Comune più colpito dal Covid-19.
Per lo studio il numero di decessi attribuiti al SARS-CoV-2 è molto più alto di quello rilevato inizialmente.
“La scelta fatta fin dall’inizio è stata di non esporre i dati in modo trasparente”
Che intende dire?
“Una certa quantità di persone prendono decisioni sulla base di dati ma se questi sono opachi le decisioni potrebbero essere sbagliate. Dico che noi riceviamo i dati della Protezione civile ogni giorno, sui contagi e sui morti, ma non sappiamo a che data si riferiscono, lo stesso vale per i tamponi”.
Abbiamo sollevato due mesi fa il problema, ma è casuale o è voluto?
“Io questo non lo so. Tecnicamente vedo che tutti noi del settore, che a vari livelli stiamo cercando di capire tramite i dati cosa stia accadendo, abbiamo seguito dei dati che erano opachi. Insieme al sindaco di Nembro Cancelli avevamo individuato i decessi tramite i dati del Comune e risultava una differenza enorme, in eccesso, per il numero di decessi in più rispetto a quelli ufficiali della Protezione civile. Quindi bisogna andare a verifica non tanto i dati della Protezione civile sui decessi Covid ma i dati dei decessi veri. E quelli sono reali, non li puoi nascondere. Come è possibile che improvvisamente sono arrivati un fiotto di nuovi deceduti, da 3/400 persone che erano state lasciate indietro? Questa cosa rappresenta un grosso problema nell’analisi e nelle scelte che poi si vanno ad adottare. Ci dovrebbe essere una totale trasparenza dei dati, di ogni dato. Se fossero trasparenti si potrebbero prendere decisioni migliori, invece l'opacità rende la qualità delle decisioni peggiori e di conseguenza ci sono ricadute economiche, organizzative, di rischio individuale, molto forti”.
E secondo lei da cosa dipende? Dalla straordinarietà della situazione, dall'approssimazione della nostra classe dirigente o da cosa?
“Non lo so, non essendo io coinvolto direttamente nelle varie cabine di regia, cioè non ho un'informazione di prima mano, ma immagino che ci siano due fattori in campo. Il primo è un processo di raccolta dei dati farraginoso e non automatizzato, cioè un processo che ha meno digitalizzazione di quanto dovrebbe avere. Il secondo fattore è invece che alcuni di questi dati hanno un valore politico molto rilevante, per cui c'è una tendenza a considerare la trasparenza sui dati come qualcosa da usare politicamente o meno. Però la mia è un'ipotesi. Non ne sono certo”.
Spieghi meglio...
“Faccio un esempio concreto, all'inizio di questa vicenda per diverse settimane c'è stato detto di non usare le mascherine, dicendo che le mascherine non erano utili ma al contempo veniva detto che i medici e gli infermieri dovevano usare le mascherine. Dopo un po' di tempo è venuto fuori che dobbiamo usare le mascherine e che era corretto usarle anche prima. Allora per quale motivo c'era stato detto di non usarle? L'ipotesi più probabile è che si volesse evitare che 60 milioni di italiani cercassero le mascherine e di conseguenza non permettessero agli ospedali e agli altri operatori sanitari di averne a sufficienza. Questo è un esempio nel quale invece di dire la verità agli italiani, cioè ‘le mascherine sono importanti ma guardate che in questo momento l'Italia non ne ha abbastanza per tutti ed è importante darle prima ad alcuni fra di noi, poi man mano che riusciremo ad averne abbastanza le daremo a tutti i cittadini’, si è deciso di dire una cosa diversa”.
Ci gestiscono come i bambini...
“Questo lo ha detto lei”.
Si certo l’ho detto io. Si poteva fare altro senza correre il rischio di mandare nel panico nessuno. Fare prima gli approvvigionamenti di mascherine o spiegare alla gente come costruirsele da soli in casa, con quali materiali. Mi sembra però che lei rilevi una difficoltà generale nel gestire le dinamiche di massa o sbaglio?
“Io faccio delle osservazioni tecniche e rilevo che durante tutta questa vicenda sono state dette delle cose e poi si è tornati indietro. In questo momento ad esempio la regione Lombardia dice che i test sierologici non sono importanti sul piano diagnostico. Questa affermazione è un'affermazione largamente non vera. I test sierologici possono essere usati sul piano diagnostico in un certo modo. Faccio un esempio. Se voi prendete un'azienda e ogni due settimane fate test sierologici a tutti i dipendenti, i nuovi positivi, anche se non in modo sicuro, sono probabilmente in quel momento infettivi per gli altri dipendenti. Quindi è un test con il quale si possono individuare i nuovi positivi quasi in modo chirurgico, ovviamente non con una precisione del 100% per tutta una serie di motivi. Rivelo però che la normativa, sull'uso dei testi sierologici, è una normativa molto restrittiva. Probabilmente si usa molto poco perché se si facessero dei test sierologici a molte persone verrebbe fuori un numero di positivi molto elevato, ma forse in questo momento le regioni non hanno a disposizioni i tamponi sufficienti per poterli processare. Ancora una volta bisognerebbe dire la verità: ‘la verità è che i test sierologici sono utili e possono essere utilizzati in modo da individuare più precisamente i positivi ma sappiate che non abbiamo sufficiente capacità produttiva per farvi i tamponi. Quindi dovremo utilizzare altre strade come la quarantena o altre metodiche cliniche per capire come procedere’. Questo è un altro esempio per dimostrare che la verità aiuterebbe moltissimo”.
Lei ha fatto anche un'analisi prospettando la possibilità di un nuovo lockdown!
“Dal momento in cui cambiano le condizioni e le restrizioni della socialità passano circa due settimane, prima di vederne gli effetti. Il primo cambiamento l'abbiamo avuto il 4 maggio, il secondo da lunedì scorso. Quello che succede è che fino al 22, 23 maggio non vedremo cambiamenti rispetto a quello che è accaduto prima o continueremo a vedere una caduta del numero di contagiati e del numero di morti. A quel punto il quadro inevitabilmente cambierà con una nuova tendenza. Quale sarà questa tendenza nessuno lo sa. Perché non conosciamo i comportamenti delle persone, se nel frattempo sono diventati più virtuosi o no. Quello che sicuramente accadrà è che aumenterà il contagio o almeno diminuirà la caduta del contagio. Ai primi di giugno potremo vedere cosa ha provocato la riapertura”.
Cosa si può prevedere?
“Possono essere tanti i fattori che intervengono ed è impossibile per chiunque prevedere come sarà fatta la curva ai primi di giugno, ma è pensabile che ci ritroveremo di nuovo un'epidemia in crescita. A quel punto è probabile che si debbano prendere delle decisioni diverse. A meno che non si arrivi ad avere una quantità di tamponi, di testi sierologici, un tracciamento delle persone e riusciamo ad entrare in contatto con loro per capire se metterle in quarantena. Se si assumono strumenti diversi non c'è bisogno della chiusura totale. Ma se nel frattempo questi strumenti non si assumono, non ci sono tamponi, non si fanno test sierologici estesi, non ci sono team che lavorano su strade alternative è abbastanza inevitabile che si vada verso una nuova chiusura. Bisogna solo aspettare di capire come cambiano i numeri”.
Lei è in qualche task force governativa?
“No, io non ho nessuna responsabilità, sono solo amministratore delegato in Santagostino”.
Il suo nome è stato molte volte associato all’app Immuni? Ne è l’ideatore?
“No, non sono il ideatore di Immuni. Sono una delle persone che ha collaborato a sviluppare Immuni, alla partenza del progetto. Ma quando il governo e il ministero dell’Innovazione ha messo fuori la richiesta, e il bando, si è capito che voleva solo un’app. La richiesta del governo era specifica per un'app. Noi avevamo lavorato ad un quadro più complesso. Da quel momento l'azienda che tra noi che è andata avanti nella relazione con il governo è stata solo la Bending Spoons che aveva le competenze per poter lavorare su quel campo. Gli altri che avevano collaborato all'inizio si sono tirati indietro”.
Data la realtà complessa e un'impreparazione generale a gestirla non si potrebbe lavorare solo sull’obbligatorietà di un certo distanziamento sociale? Permettendo al contempo la libertà in tutte le attività?
“Il problema è che dentro i bar che tipi di controlli puoi fare? Abbiamo poi personale a sufficienza per controllare milioni di aziende? Io non credo”.
Ma se lavorassimo su sanzioni esemplari, con una certezza della pena invece che dislocare in massa le forze dell'ordine sul territorio? Si vede anche un esercizio repressivo in un quadro iper confuso, dove tutto è possibile e niente è possibile a seconda della discrezionalità di chi esercita quell’attività repressiva...
“No, no, in Italia le sanzioni esemplari non hanno mai funzionato. Non abbiamo abbastanza forze”.
prima parte...continua