Cronache
"Ecco perchè a Milano non c'è la cupola mafiosa". Dda bocciata, parla il Gip
Affaritaliani.it parla con Tommaso Perna, il Gip che ha "bocciato" la Direzione distrettuale antimafia di Milano: convalidati solo 11 dei 154 arresti chiesti
“Ecco perché a Milano non c’è la cupola mafiosa”: su Affari parla il Gip che ha sconfessato la Dda
“È stato gettato solo fango su di me fino ad ora”. Ha risposto così, stanco e provato, alle domande di Affaritaliani.it il giudice per le indagini preliminari di Milano, Tommaso Perna, che con un’ordinanza di 2051 pagine ha respinto 143 delle 154 richieste di custodia cautelare in carcere della Dda lombarda. L’accusa, pesante, avanzata dalla Dda, è stata analizzata accuratamente dal giudice Perna, il quale non ha ravvisato l’esistenza di un’“associazione mafiosa”, di un “sodalizio” in Lombardia tra Cosa nostra, 'ndrangheta e Camorra che condivideva affari e società. Perna ha disposto il carcere solo per 11 persone accusate di diversi reati, ma non per associazione mafiosa. Immediata la contro-mossa della Dda che ha presentato ricorso al Tribunale del Riesame per le richieste di custodia cautelare respinte.
LEGGI LE PARTI SALIENTI DELL'ORDINANZA DEL GIP DI MILANO
Le ragioni sono presto spiegate, o meglio, le ha sviscerate proprio Tommaso Perna ad Affaritaliani.it. Nell'ordinanza, di cui pubblichiamo i passaggi salienti, viene ricostruita tra intercettazioni, foto e documenti, una lunga inchiesta, nata nel 2019 e che parte dal tentativo della riorganizzazione della locale di 'ndrangheta di Lonate Pozzolo (Varese) e coinvolge le cosche della famiglia Fidanzati e il mandamento di Castalvetrano, con i fedelissimi dell'ex boss Matteo Messina Denaro, e che sul fronte della camorra vede citati i presunti emissari del clan Senese, radicato in particolare a Roma.
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A far rumore, in particolare, il nome di Paolo Aurelio Errante Parrino, ritenuto dall’accusa il "punto di riferimento del Mandamento di Castelvetrano nel Nord Italia", riconducibile al boss di Cosa Nostra Matteo Messina Denaro. Di diverso avviso il gip di Milano Tommaso Perna che non ha dato l'ok all'arresto. E’ - si legge nei documenti che ha visionato Affari - "un fatto ormai non più contestabile" che "abbia fatto parte dell'associazione di stampo mafiosa, ed in particolare del mandamento di Castelvetrano", all'epoca guidato dal boss Matteo Messina Denaro, ma "non vi sono elementi, se non di tipo suggestivo", per affermare che il 76enne "abbia continuato a far parte del sodalizio anche in epoca successiva". All'indagato "non risulta contestato alcun reato-fine tra quelli ascritti agli altri componenti dell'associazione" descritta nell'inchiesta sul presunto patto tra mafie in Lombardia.
Ordinanza
Si parla di estorsioni, spaccio di stupefacenti, tutti reati che, però, non sono sufficienti se alla base – come ha spiegato il giudice Tommaso Perna ad Affaritaliani.it, manca il “collante e l’esternazione del metodo mafioso”. Il Gip assicura: “Non disconosco che ci siano dei contatti tra le diverse associazioni, anche perché di 'consorzio' se ne parla da oltre 30 anni. Ma si deve intendere il consorzio come un ‘punto di incontro’, di ‘contatto’. Il consorzio non è mai stato configurato come unica associazione. Se la si vuole – come ipotizza l’accusa – configurare come un’unica associazione occorre provare che tutti i membri dell’associazione hanno la stessa affectio societatis (sentimento mafioso ndr) e hanno i mezzi per portare avanti questa associazione… e qui la prova manca.
Si legge infatti nell’ordinanza: “Deve escludersi nel caso di specie la ricorrenza di un unico sodalizio che comprende tutti i sottogruppi criminali descritti... .Infatti, non è riscontrabile quel vincolo associativo di tipo mafioso come qualificato dall’art. 416 bis c.p., operativo nella provincia di Milano e dotato di una decisiva autonomia rispetto ai comprovati legami esistenti tra ciascun sottogruppo ed il clan esistente nel territorio di origine (Sicilia, Calabria e Roma).
Come si è avuto modo di vedere, infatti, se può ritenersi in qualche modo sussistente la condizione dell’esistenza di un’organizzazione di mezzi e di persone (sia pur con la dovuta precisazione che è tutto da dimostrare che i mezzi e le persone fossero funzionali alla realizzazione di un programma delittuoso comune o, piuttosto, allo svolgimento di svariate attività economiche o illecite da parte dei singoli indagati o, comunque, di singoli gruppi criminali), quel che invece è del tutto carente è, da una parte, sotto il profilo oggettivo, la prova della esternazione del metodo mafioso, e sotto quello soggettivo, la prova della affectio societatis.
E ancora: "Una volta affermata la natura innovativa, addirittura unica nel panorama storico e geografico della nazione, della consorteria in disamina, sarebbe stato onere dell'organo requirente, quello di individuare e tipizzare un'autonoma associazione criminale, che mutui il metodo mafioso da stili comportamentali in uso a clan operanti in altre aree geografiche, ciò al fine di accertare che tale associazione si sia radicata in loco con le peculiari connotazioni descritte, acquisendo, in particolare, la forza d'intimidazione richiesta per l'integrazione degli estremi dell'associazione di tipo mafioso", ma tale prova "è nel caso di specie del tutto assente".
Di certo è che "se fossero state contestate le singole associazioni sarebbe stato diverso”, conclude Perna.