Cronache
Giovanna Pancheri: "Da Trump a Biden, vi racconto la rinascita americana"
In uno dei libri più belli dell'anno, la giornalista di Sky racconta una fase che rimmarà nella storia. L'intervista di affaritaliani.it e le FOTO
Con “Rinascita americana – La nazione di Donald Trump e la sfida di Joe Biden”, edito da SEM, Giovanna Pancheri racconta una fase destinata ad entrare nella storia. In quello che lei definisce “un giro sulle montagne russe”, gli USA sono passati dal sognante “Yes, we can” di Barack Obama alla “variabile impazzita” di Donald Trump, che ha rimesso in discussione principi che si davano per assodati, anche nelle differenze ideologiche tra repubblicani e democratici. Quelli con “The Don” alla Casa Bianca sono stati quattro anni dirompenti, culminati nelle choccanti immagini dell'assalto a Capitol Hill. Dopo una campagna elettorale fortemente condizionata dal Covid-19, è arrivata una figura decisamente più canonica come Joe Biden, che sarà pure “sleepy”, come lo apostrofava il rivale, ma che sta coniugando modi rassicuranti con un significativo cambiamento delle scelte strategiche per il Paese. Il libro di Giovanna Pancheri aiuta a rimettere ordine in questo frenetico flipper tra opposti, con un taglio narrativo che rende la lettura decisamente piacevole, oltre che interessante sul piano politico e storico.
Oltre a raccontare una fase di fondamentale importanza per l'America, questo libro segna anche la conclusione di un capitolo della tua esperienza professionale: dopo gli anni trascorsi come inviata di Sky, oggi sei tornata a lavorare in Italia. Com'è stata la tua esperienza negli USA, sul piano personale?
È stata bellissima: ho avuto l'occasione di seguire una presidenza unica nel suo genere, quella di un “outsider” che ogni giorno ci dava tantissime notizie, portandoci ogni giorno tra i primi titoli anche in Italia. Come spero che emerga dal libro, ho cercato di viverla con una chiave un po' diversa dal solito, come il personaggio richiedeva. Fin da subito ho sentito l'esigenza di non rimanere nella sede di New York, ma di muovermi il più possibile sul territorio per raccontare l'America di Trump. In quattro anni ho girato circa 35 Stati, non sempre per fatti strettamente legati all'attualità, ma per capire come le sue politiche impattassero sul profondo del Paese. In particolare in Stati come la Pennsylvania, tradizionalmente democratici ma che Trump era riuscito a conquistare, ma non solo. È stato molto utile per me professionalmente, oltre che per poterlo poi raccontare all'Italia.
Ne esce un ritratto della “altra” America, non quella che siamo abituati a sentir raccontare. Forse è la parte del Paese più arrabbiata e più provata dalla situazione. E' questo il modo giusto per descriverla?
Sì, trovo che sia il modo giusto di descriverla ed è anche il momento di farlo: c'è sempre stata, ma in Europa non è mai stata molto raccontata. I nostri riferimenti culturali, a partire dalla cinematografia, sono più legati ad altri aspetti dell'America. Tuttavia in questi anni anche questo lato sta emergendo, come ad esempio in “Nomadland”, il film che ha vinto l'Oscar. Oppure “Elegia americana”, film tratto dal libro “Hillbilly Elegy” di J.D. Vance, uscito poco prima dell'elezione di Trump e che raccontava proprio il mondo della rust belt, dove lui ha ottenuto un riscontro elettorale enorme. È stato un caso editoriale, perché raccontava un'America arrabbiata, con molto disagio e che si sentiva un po' dimenticata. Con Trump ha trovato una voce e anche grazie a questo la si sta iniziando ad ascoltare. Credo che questa realtà sia stata la principale ragione della sua vittoria nel 2016, ma poi anche della sua sconfitta nel 2020.
Per quanto la carriera politica di Trump non sia finita, come si spiega una parabola così rapida, sia in fase ascendente che discendente?
Credo che le motivazioni siano insite nella natura dell'America, almeno per come l'ho capita io in questi anni. Innanzitutto il profondo pragmatismo di un Paese che può votarti anche in modo non ideologico, ma poi pretende dei risultati. Molti di quelli che hanno votato Trump nel 2016 avevano votato Obama nelle due tornate precedenti. Queste persone semplicemente cercavano soluzioni per i loro problemi e alla fine del quadriennio hanno tratto un bilancio negativo. La crisi del 2008 e la globalizzazione avevano comportato una perdita del potere di acquisto, mettendo tante persone in difficoltà e quindi si è cercata una soluzione alternativa nella ricetta trumpiana, per molti aspetti innovativa anche all'interno del mondo repubblicano. Ad esempio il suo protezionismo fa a pugni con i valori liberali della sua parte politica. E alla fine non ha portato risultati: ad esempio i dazi con la Cina non sono stati una grandissima idea. Per questo molti hanno poi cambiato il loro voto, mentre la parte più estremista ha sostenuto Trump anche nel 2020. Poi c'è stata la questione migratoria, con il muro annunciato e mai costruito, la gestione della situazione sanitaria e anche la maturazione delle questioni legate ai diritti civili, che sono andate oltre il movimento Black Lives Matter, il tema del controllo delle armi e quello ambientale. Per tutti questi fattori, lo scorso novembre le elezioni sono state molto partecipate, in particolare nelle comunità afroamericane e tra i giovani: alle piazze piene, sono seguite le urne piene. (CONTINUA A LEGGERE)