Culture

Beni culturali, mentre i professionisti sono disoccupati lavorano i volontari

di Sara Perinetto

Con il 2021 si chiude un altro anno nero per i lavoratori del settore culturale, tra disoccupazione e precariato

Lavoratori dei beni culturali discriminati rispetto a volontari, percettori del reddito di cittadinanza e operatori del servizio civile. Il motivo? Costano troppo

Che con la cultura non si mangia è uno di quei falsi luoghi comuni diventati reali a causa di pessime pratiche di gestione del settore culturale: di lavoro, infatti, ce ne sarebbe per tutti i numerosi professionisti dei beni culturali che si formano ogni anno nelle università e nelle accademie italiane. Il problema è che il lavoro va (andrebbe) retribuito e i contratti (regolari) costano. 

Ecco perché i professionisti dei beni culturali restano sempre di più disoccupati, spesso precari, a volte costretti a cambiare mestiere o farne più di uno per sopravvivere (avete presente un altro spassosissimo luogo comune che vuole i laureati umanistici a friggere patatine nei fast food? Ecco).

Ma come può succedere tutto ciò nel paese che detiene il maggior numero di siti inclusi nella lista dei patrimoni dell’umanità Unesco (cioè 58)? Grazie a una lunga, meticolosa e instancabile opera di depotenziamento e svalutazione della figura del professionista dei beni culturali svolta da governi, ministeri, istituzioni ed enti da circa 30 anni a questa parte. 

È così che siamo arrivati al 2020, anno emergenziale causa Covid, all’inizio del quale (già, era solo l’inizio) il 56% dei lavoratori di settore dichiarava di aver subìto “l’interruzione dell’attività lavorativa con conseguente azzeramento o crollo delle entrate”, che per quasi la metà di loro significava una perdita fino al 100% del proprio reddito.

Questi dati, insieme a molti altri, erano stati raccolti da Mi riconosci? Sono un professionista dei beni culturali, associazione di settore che si occupa della tutela dei lavoratori e dei beni culturali (potete leggerne di più cliccando qui). Questo perché solo il 12% degli intervistati dichiarava un contratto di lavoro a tempo indeterminato, mentre la maggior parte risultava “assunta” con partita iva, ovvero: sottostava a regole e mansioni da lavoratore subordinato ma senza le relative tutele.

Un altro 37% di lavoratori, invece, dichiarava di lavorare con prestazioni occasionali, contratti a chiamata oppure senza contratto (in nero). In altre parole, la maggior parte dei professionisti dei beni culturali, dopo aver investito soldi in istruzione e formazione che li renda capaci di comprendere e gestire un settore così delicato e complesso, si trova a lavorare senza tutele contrattuali e con uno stipendio inadeguato al percorso sostenuto, ai titoli di studio raggiunti ma anche, spesso, al costo della vita.

Beni culturali, il problema dell'esternalizzazione

L’esternalizzazione dei servizi, per esempio, fa sì che i lavoratori presenti in un museo pubblico possano essere in realtà assunti da una cooperativa che li inquadra come inservienti o vigilanti (il famigerato contratto multiservizi), anche se nei fatti svolgono mansioni di responsabilità o eterogenee rispetto al proprio ruolo (come pulizie e controllo dei biglietti insieme a cura e valorizzazione del patrimonio).

Ovviamente, con paghe ridotte all’osso, necessarie alla cooperativa di riferimento per tagliare i costi e vincere l’appalto. Avevamo già parlato qui dei lavoratori pagati 4,80 euro l'ora per accogliere i ministri al G20 della cultura, per esempio. Il polso della situazione ve lo possono dare i numerosi commenti indignati a un recente post Facebook, linkato qui sotto, con cui la Scuola Normale Superiore di Pisa elogiava la professionalità di una giovane bibliotecaria che lavora lì, per una cooperativa, appunto. Gli utenti hanno chiesto a più riprese perché esaltare il precariato invece di prodigarsi per assumere direttamente questa lavoratrice: la Normale ha risposto limitando i commenti al post.

Volontari nei beni culturali, percettori di reddito di cittadinanza e detenuti

A fianco a queste figure, però, spesso ce ne sono altre, messe a svolgere le stesse mansioni ma senza qualifica alcuna. È il caso di volontari, percettori del reddito di cittadinanza e, da poco, anche detenuti. 

Del 3 novembre è la notizia dell’accordo siglato tra i ministri Franceschini e Cartabia per far lavorare i detenuti nei siti culturali: 52, per la precisione, che apriranno le porte, per ora, a 102 persone imputate per reati per i quali è prevista una pena di massimo quattro anni, impegnate nei lavori di pubblica utilità ai fini della messa alla prova. In caso di esito positivo, il reato si estingue. Lodevole iniziativa quella di mettere a contatto i detenuti con la realtà artistico-culturale e dare loro la possibilità di rendersi utili alla comunità, ma perché far loro svolgere lavori che richiedono competenze e professionalità per cui esistono figure qualificate e formate?

Sempre da Franceschini arrivava, a metà ottobre, un endorsement all’impiego di partite iva invece di contratti d’assunzione: il ministero dei Beni culturali, infatti, ha chiuso il 15 novembre un bando per archivisti a partita iva, dottorato o scuola di specializzazione come requisito, per 2000 euro lordi mensili (liquidati dietro presentazione di fattura a lavoro finito), 130 ore mensili per un massimo di 24 mesi.

Non certo una politica lungimirante in un paese in cui gli archivi chiudono per assenza o carenza di personale. L’ultimo, tra quelli che hanno suscitato più scalpore, è il caso dell’Archivio di stato di Genova, da tempo alle prese con una cronica carenza di lavoratori

“Spiace comunicare che oggi 17 novembre 2021 la sala di studio dell’Archivio di Stato di Genova rimarrà chiusa al pubblico, a causa della mancanza del personale sufficiente per garantirne l’apertura”, è l’avviso che gli utenti hanno trovato affisso sulle porte della sala consultazione dell’archivio il mese scorso. Stessa sorte che il mese prima era capitata all’Archivio di stato di Camerino

La figura del volontario è invece ormai onnipresente, tanto che anche le grandi istituzioni non si fanno scrupoli a reclutarli con bandi pubblici al posto di personale specializzato. Tra i casi che avevano fatto più scalpore, ricordiamo quello del comune di Milano che, lo scorso 10 marzo, mentre si iniziava a intravedere uno spiraglio di ripartenza dopo il lungo stop alla cultura imposto dal Covid, aveva pubblicato un bando rivolto alle organizzazioni di volontariato e associazioni di promozione sociale per “attività di facilitazione alla fruizione del patrimonio culturale di alcuni istituti del Comune di Milano”.

Nello specifico, si leggeva nel bando, “i volontari saranno invitati a facilitare i processi di conoscenza dei siti culturali comunicando le principali informazioni ai visitatori per stimolare la curiosità e migliorare la fruizione del patrimonio”. Tutte mansioni specializzate che dovrebbero essere svolte da personale qualificato e competente.

Il tavolo ministeriale contro l'abuso del volontariato nei siti culturali

Che del volontariato si abusi in barba alla legge è attestato anche dal fatto che lo stesso ministero ha deciso di aprire un tavolo di confronto sul tema, organizzato dalla Direzione Generale Musei, alla presenza di rappresentanti sindacali e di categoria. “Tutti i partecipanti hanno concordemente sostenuto che il volontariato aiuta e non sostituisce i lavoratori, ma è evidente che negli ultimi trent'anni sia stato fatto un uso sistematico del lavoro gratuito travestito da volontariato” hanno comunicato gli attivisti di Mi riconosci? riportando la notizia. 

“È stata sottolineata da più parti la necessità di procedere urgentemente a nuove assunzioni, considerando che senza un livello minimo e adeguato di personale non sarebbe possibile stipulare nuove convenzioni con associazioni di volontariato”, specificano.

Di certo è un buon punto di partenza, ma basterà? La stessa capitale italiana della cultura 2022, Procida, ha aperto la ricerca di volontari per realizzare questo “progetto straordinario”. Insomma, la strada da fare verso il riconoscimento della dignità e della professionalità dei lavoratori del settore culturale sembra purtroppo ancora lunga.  

Un'idea potrebbe essere, mentre si lavora a un piano di assunzione di disoccupati e precari qualificati, insegnare che la cultura non è mero intrattenimento ma punto di forza e potenziale volàno di rilancio dell'economia nazionale. Valorizzare il patrimonio italiano non può prescindere dalla valorizzazione di chi sa prendersene cura in modo professionale ed esperto, per aiutare l'intero paese e dimostrare che tutta l'italia può mangiare grazie alla cultura, invece di farci mangiare sopra solo una minoranza privilegiata.