Culture

Cagliari, Gardini e l'Enimont

 

Martelli
IN LIBRERIA PER BOMPIANI L'AUTOBIOGRAFIA DI MARTELLI. ECCO UN ESTRATTO

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"Il consiglio dei ministri si riunirà, di regola, tutti i venerdì alle nove. Non dico nove esatte perché non ho mai capito perché bisogna aggiungere 'esatte': le nove sono le nove, punto. Nomine e incarichi saranno discussi a inizio di seduta, così chi è interessato sarà anche puntuale."

L'eterna ironia, l'inconfondibile strascicamento della voce querula, il lungo corpo ricurvo all'altezza delle spalle e del ventre, sprofondato e acciambellato nella poltrona, la calma glaciale dentro gli occhi ingranditi dalle lenti, Andreotti sbrigava gli affari di stato prestando simultanea attenzione alle copiose rassegne stampa, alla corrispondenza personale, alla correzione delle bozze dell'ultimo libro, all'interloquire  di venticinque ministri di cinque partiti diversi, ai bisbigli dei collaboratori e ai lampeggi dei telefoni. Eppure sembrava immobile.

Seduto alla destra di Giulio Andreotti al gran tavolo circolare del consiglio dei ministri, ruminavo frustrazione ed eccitazione per il nuovo incarico, osservando di sottecchi il più celebre, il più vetusto, il più coriaceo tra tutti i mandarini della Prima repubblica.

Cosa avrei imparato di lui e da lui vedendolo da vicino? Cosa, che non fosse già stato reso noto dalla smisurata aneddotica che aveva accompagnato cinquant'anni di vita politica, di multiforme, spregiudicata duttilità, di compiaciuto potere? Di cosa potevo fidarmi e di cosa dovevo, assolutamente, diffidare?

Interessato all'iniziativa che avevo preso sull'immigrazione, attento ad assecondarmi, si faceva premura di affidarmi compiti e deleghe che riempissero di contenuto la vicepresidenza. Così, in consiglio dei ministri, mi affidò anche la patata, già calda ma non ancora bollente, dell'affare Enimont.

L'idea di creare un grande polo chimico nazionale fondendo gli asset chimici dell'ENI e di Montedison sembrava un'idea eccellente. Sulla carta. Nei fatti, le forme di gestione interna dei due gruppi, le diverse relazioni sindacali, le strategie industriali nazionali e internazionali, i rapporti con il potere politico non potevano essere più estranei. Per gestire quella che avrebbe dovuto muoversi come una società per azioni multinazionale, era stato scelto un manager pubblico molto stimato: Lorenzo Necci. Sicuro delle sue indubbie capacità, Necci — repubblicano amico di Gianni De Michelis — aveva a lungo ambito di diventare presidente dell'ENI. Tutto, dunque, congiurava a farne il gestore e il garante della visione e degli interessi della parte pubblica, del socio pubblico, cioè dell'ENI. Senoncli PENI non aveva una storia né importante né innovativa nell'industria chimica, che concepiva come un derivato e un trasformatore dei prodotti del proprio core business, ossia l'industria petrolifera. Montedison, viceversa, avevi una tradizione di autonomia e di innovazione, disponeva di asset strategici di valore internazionale, e soprattutto aveva un padrone che si sarebbe rivelato il più scomodo degli interlocutori: Raul Gardini.

Ministro delle partecipazioni statali era Carlo Fracanzani, democristiano padovano, soprannominato "il barone rosso" per le origini aristocratiche e gli orientamenti politici. Ministro dell'industria, il repubblicano Adolfo battaglia, che oltre a essere compagno di partito di Lorenzo Necci, era tributario di quella concezione oligarchica e di quella prassi familistica del capitalismo italiano che avevano in Enrico Cuccia l'arbitro e regista e in Medio-banca la struttura finanziaria ín grado di tessere, disfare, ingarbugliare gli accordi proprietari pur di far durare quel genere di capitalismo, dinastico e famigliare, che è sempre stato il limite del capitalismo italiano.


Venuti quasi subito ai ferri corti í protagonisti, Andreotti mi aveva delegato a sbrogliare la matassa coordinando l'azione dei ministri e degli attori coinvolti, cercando una mediazione tra il padrone pubblico e quello privato. Il solo atout di cui disponevo, oltre a me stesso e al mio ruolo politico, era l'amicizia con Gabriele Cagliari, presidente socialista dell'ENE, alla cui nomina avevo concorso riuscendo a imporlo rispetto a Necci, il candidato concorrente.

Con Gabriele la comunicazione era diretta, franca sin lai tempi del sodalizio comune nel Club Turati di Milano. I )a lui, che di chimica ne capiva più di tutti, ottenni via via un quadro obiettivo della situazione e delle strategie più utili allo sviluppo della chimica italiana, che aveva alle spalle una storia di improvvisi sviluppi e repentini fallimenti.
Raul Gardini aveva chiesto a Sergio Cusani, diventato suo consulente di incontrarmi. Raul l'avevo intravisto appena, tempo prima, all'epoca della brusca defenestrazione di Mario Schimberni da Montedison, la cui proprietà Gardini, all'improvviso, aveva scalato. Mi invitò a cena nella sua nuova casa, la Cà Dario, a Venezia. Il palazzo, stupendo, sbilenco, ornato di sontuosi marmi policromi, aveva fama di portare sventura come talvolta la bellezza più straordinaria. Prima di cena, Gardini mi presentò tutta la sua famiglia: la moglie Idina, la cognata Alessandra consorte di Carlo Sama, la figlia e il futuro genero. Solo dopo cena e tra uomini si parlò di politica e, soprattutto, di Europa.

Raul era appassionato di Europa e anche molto preoccupato di cosa sarebbe potuto succedere all'Italia mediterranea con le sue fragili strutture dentro un mercato unico in competizione con "l'Europa carolingia", come gli piaceva chiamare l'Europa continentale. "Verranno giù con le loro industrie, le loro banche... e qui... qui non ce ne sarà per nessuno." Si definiva e lo definivano "il con tadino", ma era il vezzo snobistico di chi, sposando una Ferruzzi, era prima diventato il gestore del più grande gruppo cerealicolo, dell'industria dei semi oleosi e dei cal cestruzzi e poi l'aveva trasformata, attraverso una rincorsa di acquisizioni, nel più grande gruppo industriale italici  dopo la FIAT.

Anche lui, più che parlare, affabulava per anacoluti,  curante di ogni consecutio. Folgorato da un'illuminazione, si accendeva di entusiasmo, ma anche di paure di guerre e calamità incombenti, sempre al limite della contraddi vi, ne tra le parole e la mimica facciale e gestuale. "Dramma ticamente" era il suo avverbio preferito, lo pronunciava con inflessione romagnola, magari ridendo, eccitato, con la chiostra dei denti bianchissimi, luccicanti, in un volto solcato da cicatrici, un volto ancora bello. Il respiro affani iato dal fumo quotidiano di cento Muratti Ambassador, beveva generosamente e sapeva ascoltare. Volle sapere del » io progetto di legge sull'immigrazione, commentando: " Attenzione, appena ci distraiamo quelli vengon giù... vengon qui a milioni, attraversano le frontiere, dramma! icamente, a milioni come i Goti, come gli Unni... Verranno giù da nordest — è un'autostrada — e invaderanno la pianura feconda... drammaticamente." Mi fu presto chiaro che per lui "drammatico" era sinonimo di grande, importante, eccezionale.

Mi raccontò la sua esperienza americana, la potenza americana, la potenza di un'industria e di una finanza "spietate, drammaticamente spietate, ma la Borsa di Chicago, il più grande mercato di granaglie del mondo... :omprano i raccolti futuri, comprano e vendono... Quei i,iorni io l'ho piegata... Loro non ci credevano, non crelevano ai loro occhi drammaticamente... Non credevano lie un contadino italiano potesse muovere tutta quelli montagna di dollari... Io mi sono chiuso in camera ad aspettare e i dollari sono arrivati".

(continua in libreria)