"E quel poco d'amore che c'è", torna in libreria Emmanuele Bianco - Affaritaliani.it

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"E quel poco d'amore che c'è", torna in libreria Emmanuele Bianco

 

Fandango

LA TRAMA - Santo, Maria e Veniero un tempo sono stati una famiglia, ma è successo soltanto per un attimo, quando fu scattata la foto che oggi il figlio conserva in una imponente cornice d’argento. Santo, il padre, custodisce ugualmente quella foto, ma come il reperto di un tempo andato, perché vive lontano da anni ormai da Maria, e da Veniero, bello e inquieto. Ma l’inquietudine ci vuole, è come il sole. Tiene vivi. E così Veniero vincendo la sofferenza per l’abbandono del padre riesce a costruirsi una vita felice altrove, a Parigi, una vita di benessere, tenerezza, romanticismo, almeno fino a quando non lo raggiunge la notizia che Maria sta morendo e desidera rivederli per un’ultima volta. Padre e figlio, costretti dalle circostanze, si ritrovano così nel profondo nord per partire insieme e tornare alla loro terra: la Sicilia. In viaggio su una vecchia Alfa 33, per le autostrade innevate e tetre della Pianura Padana, e poi via via più dolci e assolate, scendendo verso la Campania, entrambi sentono il bisogno di fare chiarezza, ma le parole sono congelate, la discesa un oscillare imbarazzato: ostinati silenzi, muti rimproveri, scatti di rabbia, lacrime che si sciolgono. In viaggio Santo e Veniero si conoscono davvero per la prima volta, lontani vent’anni da quell’essere padre e figlio per forza. Un viaggio lungo l’Italia, ma soprattutto un viaggio dentro al mare buio, dietro la memoria, attraversando in solitaria le correnti della vita fino a tornare a quella fotografia...

 

 

EmmanueleBianco

L'AUTORE - Emmanuele Bianco è nato a Milano nel 1983 e vive a Roma. Nel 2010 ha pubblicato per Fandango Libri il suo primo romanzo, Tiratori scelti. Gioca nell’Osvaldo Soriano Football Club, la Nazionale Italiana Scrittori.

LEGGI IL PRIMO CAPITOLO:

Ti ho sempre chiamato mamma. Anche quando, per scherzare, ero fissato con le lingue e ti chiamavo mother, mamita, mutti, maman. E adesso eccoci qua: tu, in quel letto che è diventato il tuo mondo, e io, su questa sedia. Sei dentro quelle lenzuola, la pelle sciupata e grigia, e io, inchiodato a questo silenzio. Quando sono entrato nella stanza avevi gli occhi chiusi, allora mi sono seduto qui, senza svegliarti. Ti osservo, mamma. E non posso fare altro che ricordare, soprattutto quando sorridevi, anche solo per gli altri. La paura di disturbare, il senso della vergogna: questo eri. Avevi sempre paura, la tua insicurezza era la mia determinazione. Mi sono affermato, crescendo a contatto con la tua insicurezza. D’altronde vivere con Santo ti ha insegnato soprattutto questo: la convinzione che qualunque cosa facessi fosse sbagliata. Ma forse questo accade un po’ a tutti. Sei stata mortificata ogni giorno della tua vita, ma credo che in qualche modo ti amasse. Credo di aver capito che la gente non è pronta a comando sull’amore. C’è un tempo e un percorso da fare, ma spesso ci si illude di essere pronti anche se non è così. Sono convinto che la maggior parte di noi ami qualcuno perché non ha molto di più a cui affidarsi. Un giorno ti chiamai, ricordi ma’, ero felice perché m’avevano invitato a tenere un corso di cucina in Belgio. Mi avevi chiesto, se ci ripenso ancora non mi do pace... mi avevi chiesto dove dormissi. Se vai a casa di estranei comportati bene e sii discreto, avevi detto, e porta dei regali. Ti risposi che l’organizzazione aveva prenotato un albergo e tu mi avevi chiesto chi lo avrebbe pagato. L’ingenuità della domanda mi lascia ancora senza parole. Chi vuoi che lo paghi ma’, ti dissi, l’organizzazione. Ti rabbuiasti, anche se eravamo al telefono percepivo che qualcosa ti aveva dato fastidio. Continuammo la conversazione e prima di chiudere mi dicesti: per favore, non farti pagare l’albergo, è vergogna. Iniziai a ridere, tu eri seria. Ti eri imposta, mi avevi fatto promettere che avrei pagato l’albergo da me. Ti pagano bene per questo corso, non è vero? Ti risposi di sì, che mi davano una bella cifra. E allora, dicesti, amore di mamma, non lasciare conti aperti. Devi essere un signore, non un ragazzino con troppe pretese. Me lo facesti promettere: promettimi che non mi fai vergognare di avere un figlio scroccone, non te ne devi mai approfittare degli altri, ricordatelo. Giuramelo. Lì per lì te lo giurai. Ti promisi che mi sarei pagato l’albergo da solo. Non avresti capito che quello che mi chiedevi era irragionevole. Il tuo senso del pudore andava oltre le convenzioni di questo mondo. La gente sarebbe meno simile a una bestia e più simile a un bisogno se chi comanda riuscisse in uno qualunque dei tuoi sorrisi. E ora te lo dico, ma’. Non pagai mai il conto di quell’albergo, neanche gli extra. Avevo bevuto in quei tre giorni, non ero un alcolista, ma era un periodo in cui faticavo a prendere sonno senza qualche bicchierino. E tutti quei bicchierini non li pagai. Li misi in conto all’organizzazione. Era una tua mania quella di dirmi: promettimilo. Di mettermi spalle al muro con quel tuo sguardo, o quella tua voce che associavo benissimo a quel tuo sguardo, e di farmi promettere. Una tua specialità. Ti potevi permettere il lusso di strapparmi promesse perché mi offrivi amore e un modello di esistenza autentica. È strano: vederti avvolta in queste lenzuola, con la vita che ti sta sfuggendo, non mi disturba. Avevo sempre immaginato che vedere una persona in fin di vita avrebbe potuto turbarmi. Vedere te, con gli occhi chiusi e la pelle cenere, appesa a un soffio, con la morte qui, da qualche parte, vicino a noi, che ti accarezza come io non riesco a fare, dovrebbe forse spingermi a un’altra reazione. Forse dovrei piangere. Ma non ci riesco ma’, non mi viene. Ieri sera sono uscito per un paio d’ore e ho visto qualche amico. Certo che qui non cambia nulla. Ma poi dov’è che le cose cambiano davvero? Mi hanno detto che non ci sono più bambini e le scuole elementari rischiano di chiudere. Pensano di fare una classe unica di bam- bini della prima e della seconda. Non ti sembra incredibile? Com’è possibile? Sai ma’, a volte penso a cosa ci sta dopo. Penso a dove stai andando tu. Se veramente, chiusi gli occhi per sempre, finiamo di esistere. Intendo noi, il nostro modo di essere altruisti, la nostra infedeltà, il nostro io. Se scomparirà per sempre la nostra intelligenza, proprio quella, o se nel mondo, in qualunque mondo, venga cancellato per sempre il nostro saper ridere di fronte ai drammi. Se veramente, dopo di noi, a indicare la nostra presenza, rimaranno solo i nostri figli e i nostri debiti. Ti guardo, ma’. Ti sei addormentata nel breve tempo tra l’uscita di Santo e il mio arrivo. Non è passato neanche un minuto, eppure eccoti lì, in catalessi, con le labbra sottili che provano a delineare uno dei tuoi sorrisi mozzafiato. Sono certo che anche con questa pelle grigiastra e il viso mummificato riusciresti a cacciarne uno dei tuoi. Uno di quelli che anche la Morte ti resisterebbe. Sono stato con te per diciotto anni, troppo poco. In tutto questo tempo non ho mai pensato, neanche per un solo istante, che mi saresti mancata così tanto. In un modo o nell’altro c’eri, mi bastava. Mi bastava anche quando me ne sono andato di casa, pensarti mi ancorava a tutte le verità. Pensarti viva. Questo, per la prima volta, solo ora, mi spaventa. Ti ricordi, ma’, quando mandai a quel paese Catacchio? Gli dissi: vaffantulo. Ancora non parlavo bene, non riuscivo neanche a scandire come si deve. Forse non arrivavo a cinque anni, lui superava già i cinquanta. Mi bucò il pallone, ricordi? Mi misi a piangere, ero indemoniato. Mi buttai per terra e cominciai a strillare. Ti affacciasti e dopo un minuto ti precipitasti in cortile. Catacchio stava ancora lì, tutto tronfio, con il coltello in mano e la carcassa del pallone a terra. Provasti a calmarmi: suo figlio è scalmanato, disse Catacchio. Niente, non c’era verso. Ho provato più volte a dirgli di non giocare, ma lui continuava a tirare certe pallonate. Vaffantulo, gridai. Vaf- fantulo, vaffantulo. Catacchio smise di parlare, non se l’aspettava. A quel punto tu dovesti intervenire e mi tirasti una sberla in piena faccia. Se mi sforzo riesco a ricordare precisamente il male che mi fece ricevere quel gesto. Era la prima volta. Fu l’unica. Subito dopo dicesti: signor Catacchio metta via quel coltello che il bambino si spaventa. E non s’azzardi mai più a fare una cosa del genere, ho detto io a mio figlio che poteva giocare perché oltre una cert’ora è consentito dal regolamento. Non dirò nulla a mio marito, ma lei stia al suo posto. Mi trascinasti via, a quel punto piagnucolavo appena, il dolore stava già passando. Dicesti tutto con una tale rabbia e una tale velocità che mettevi paura. In ascensore mi passò definitivamente tutto: spalancasti uno dei tuoi sorrisi magici e mi dicesti: non ti preoccupare, sabato al mercato ti compro un bel pallone nuovo. E in un attimo la guancia infuocata dalla sberla divenne seta fresca. Sai ma’, l’ho rivisto Catacchio. Ho fatto finta di niente, lo so che mi avresti rimproverato. Lo so bene. Mi avresti detto.

“Comportati da ometto... rispetta tutti, anche chi non conosci... e saluta per primo...”

“Mamma... sei sveglia?”

No, non lo sei. Sei come in trance. Non sei presente, ma neanche assente. È tremendo, ma’. Hai parlato come se avessi sentito tutto. Forse hai sentito tutto. Sono qui, ma’. La senti la mia mano? Che pelle morbida che hai. Hai sete? Vuoi che ti porti un po’ d’acqua? Va bene, hai ragione. Vuoi riposarti, lo capisco. Sto un altro po’ qui, ti parlo. Ti parlo, ma tu riposa. Lo so che saresti stata più contenta se avessi salutato Catacchio. Lo so che l’unica cosa che vuoi è sapere di aver fatto un buon lavoro con me. Vuoi essere certa di avermi educato come si deve, per andare in giro a testa alta, orgogliosa di ciò che è stata la tua vita. Vuoi che io stesso vada in giro a testa alta, fiero, senza vergognarmi di nulla. Sorridente, innamorato, in pace. Vuoi che io sia in pace, mamma. Per questo mi hai costretto a venire fin qui. Tu lo sapevi. Lo sapevi che il tempo passa al setaccio la vita, come un panno che filtra il brodo e lo purifica. Sapevi, ma’, che c’erano grumi che ingozzavano, ma sapevi che erano di vent’anni fa. Forse quando si sta per morire molte cose appaiono più nitide.

“Guarda laggiù...”

“Laggiù dove, mamma?”

“Laggiù...”

Il laggiù è un comodino, di fianco al letto: medicine, pillole, siringhe, un bicchiere, e una foto, senza cornice, in prossimità di tutto. La stessa foto scattata alla casa al mare: la gioia di Veniero, piccolo, di otto o nove anni, con un costumino da bagno rosso su gambette graciline, abbrustolito dal sole, con i capelli increspati a formare bozze di riccioli ruvidi, gli occhi larghi e profondi, una pistola ad acqua gialla in mano e uno schizzo già partito, con il viso sorridente di quando è felice un bambino, rivolto al padre; Santo, seduto su una sedia a sdraio nella veranda della casa al mare, a torso nudo, con le mani alzate in segno di resa, per una volta spensierato, leggero, con un’aria da criminale romantico che sa quando arriva la sua ora, che dimostra a se stesso e agli altri come si affronta un momento atteso fin dal principio della storia; Maria, di vetro sottile, con una vestaglia a fiori, di quelle che vendono sulle bancarelle dei mercati, la sua ombra proiettata sul corpo di Santo è grandiosa nel conteggio di luce della veranda, con un paio di manette giocattolo, che guarda il piccolo Veniero come trafitta dalla vita, i capelli, un sussurro nel vento: bagnati; i tulipani sul seno e sull’addome: bagnati; il viso: sfavillante e umido; la luce del tramonto che bussa inclinata per accendere gli occhi splendenti di Veniero, quelli impuniti di Santo; il getto della pistola ad acqua che sta per colpirla ancora; di vetro sottile: morente.

Veniero prende in mano la foto: un po’ sbiadita, ma conservata come dentro a un tabernacolo. È stupito di come si sia mantenuta intatta. Maria, da dov’è ora, legge nella sua testa.

“La cornice pesava troppo, facevo fatica a prenderla...”

Allora ti stai riprendendo, ma’. Coraggio, apri gli occhi, voglio vederli ancora. Aprili mamma, dài.

(con