Culture

Irpinia 23 novembre 1980: l’umanità che precipita senza sapere il perché

Di Lucrezia Lerro

La disperazione ha sempre la stessa faccia e la stessa dignità

Il giorno del terremoto in Irpinia, il 23 novembre 1980, avevo tre anni. Abitavo con la mia famiglia in un paese perduto sui monti del salernitano, e lottavo per crescere e per capire (ma anche per accettare) il mondo dei grandi, che già allora mi sembrava terribile e comico. In un momento, per qualche incomprensibile motivo, la natura aveva deciso di ribellarsi alla gente del nostro paese. Le prime scosse arrivarono di sera e subito trasformarono duramente il luogo e le persone. Ero una bambina sensibile fino all'eccesso e compresi che in qualche modo imprevedibile questa brutale novità aveva preso il sopravvento su tutto il resto, cancellando tutte le paure e i problemi quotidiani, tutte le difficoltà apparentemente insormontabili della nostra vita marginale. Ognuno di noi, in fondo, vivendo lì e in quel modo, considerava che non fosse possibile star peggio di come stava. Noi già circolavamo nella miseria, eravamo già stati puniti abbastanza e (forse) niente avrebbe potuto colpirci.

Oggi ancora mi sorprendo e mi commuovo davanti alla difficoltà di chi si trova dentro la furia della natura. Quaranta anni dopo il "mio" terremoto, i ricordi della bambina che sono stata si misurano con la realtà che hanno vissuto altre regioni d’Italia. Giornali e telegiornali raccontano una tragedia che periodicamente colpisce una parte di noi lacerando una fetta del nostro territorio nazionale, la raccontano e la moltiplicano. Tenendo accesa l'attenzione su queste catastrofi, in qualche caso anche immani, in fin dei conti, le trasformano in riti della collettività. Non possono però certamente raccontare tutto.

Io conosco bene il sentimento di impotenza e di incredulità che afferra chi patisce per qualcosa che non ha causato, di cui non è, né può essere, responsabile. Io e la mia famiglia abbiamo pagato, e con noi tutte le altre famiglie del paese, perché il terremoto indebita, sempre e per un tempo molto lungo, siano i danni minori o maggiori, materiali o sentimentali. La notte del 23 novembre 1980, io e i miei fratelli, con mio padre e mia madre, siamo scappati da una casa, la nostra, che già stava in piedi per miracolo e ci siamo rifugiati nel campo sportivo del paese insieme a tutti gli altri. La gente urlava, i bambini piangevano, i vecchi tremavano. Ognuno piangeva per la paura e per il freddo. Avevamo tutti lo stesso cuore, lo stesso terrore nella voce e negli occhi.

Mia mamma ancora ricorda le parole di suo suocero: «Metti a letto i bambini, fanno troppo rumore…ma cosa fanno, ballano?» Era il terremoto, ma mio nonno non aveva capito per via del fatto che i pavimenti poggiavano su delle assi di legno già marce, e dava la colpa a noi fratellini. Poi, la fuga. Siamo rimasti fuori di casa per tre giorni. Al rientro la nostra casa sembrava un fantasma. C'erano crepe ovunque e il pavimento sempre traballante si era trasformato in un incubo. E poi non dimenticherò mai la carta da parati che ogni giorno si staccava dalle pareti sbrecciate e dalle travi, marce come il pavimento. La porta d'ingresso era venuta giù, così per molti anni abbiamo abitato in una casa senza porta.

I danni del terremoto sono indelebili perché si rimane all'improvviso privati di qualsiasi cosa. In un certo senso si perdono pezzi della propria identità. Si perde la possibilità di sentirsi protetti e si sprofonda in un abisso di insicurezza. Rivedo ancora adesso la gente disperata dell’Irpinia, i loro corpi avvolti in coperte provvisorie e anonime, cose che conosco. I loro sguardi sono di persone in balia del mondo. Sono lo specchio di un'umanità che sta precipitando senza sapere perché.

Adesso ho qualche prova in più per poter dire che la disperazione ha sempre la stessa faccia e la stessa dignità.