Culture
Rosella Postorino e il nuovo romanzo: "Ho cercato una lingua corporale e sensoriale... Da scrittrice ed editor, considero necessari i consigli altrui"
di Antonio Prudenzano
su Twitter: @PrudenzanoAnton

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Rosella Postorino, classe '78, ha esordito con il racconto In una capsula, incluso nell'antologia Ragazze che dovresti conoscere (Einaudi Stile Libero 2004), e ha poi pubblicato i romanzi La stanza di sopra (Neri Pozza '07, selezione Premio Strega, Premio Rapallo Carige Opera Prima) e L'estate che perdemmo Dio (Einaudi Stile Libero '09, Premio Benedetto Croce e Premio speciale della giuria Cesare De Lollis). Ha anche scritto per il teatro: la pièce Tu (non) sei il tuo lavoro (in Working for Paradise, Bompiani '09), e nel 2011 ha pubblicato Il mare in salita (per la collana Contromano di Laterza).
Il suo nuovo romanzo, Il corpo docile (Einaudi Stile Libero), ha per protagonista, Milena, che è nata e che ha vissuto fino ai 3 anni in un carcere, e che ora ha 24 anni e si prende cura dei bambini reclusi. Anche lei, per due anni, ha fatto la volontaria a Rebibbia: è nata in quei mesi la scelta di scrivere questo libro, o lo aveva in testa già da prima?
"Anni fa – stavo ancora finendo il mio secondo romanzo – scoprii che c’erano bambini che vivevano in galera con le loro madri, detenute. La cosa mi colpì molto. Immaginare bambini che nascono e crescono per i primi tre anni della loro vita in un luogo così duro, separato dalla società e deumanizzante, mi ha fatta stare male. Ho pensato che volevo fare qualcosa per loro. D’altronde, avevo sempre desiderato offrire un po’ del mio tempo alle persone rinchiuse in carcere. C’è qualcosa, nel carcere, che mi riguarda. Credo sia proprio l’impossibilità di stare davvero nel mondo, quell’astensione dalla vita (che fin da piccola mi capita di vagheggiare), la necessità di orientarsi in mezzo al nulla assoluto, il senso di colpa, e il bisogno ostinato di esistere nonostante tutto. Io sono claustrofobica, ed entrare in carcere per me è stato faticoso. Incontrare i bambini di Rebibbia, invece, nei sabati di libertà che l’Associazione «A Roma insieme» ha il merito di promuovere da una ventina d’anni, portando ogni settimana i figli delle detenute in gita al mare o al parco o al maneggio, è stata un’esperienza bellissima e potente, di cui sono grata. Sono una scrittrice e posso usare le parole per dare voce a chi non ce l’ha, come questi bambini. In fondo, è quel che tenta di fare Milena con il giornalista Lou Rizzi, che le promette di realizzare un servizio sulla condizione dei bambini e delle madri recluse. Un romanzo – poiché costruisce una storia, mette in scena personaggi, usa il veicolo delle emozioni – ha più chance di arrivare alle persone e di fare luce su un problema così grave. Uno scrittore non decide l’argomento di cui scrivere: almeno, per me non è mai così. Ci sono personaggi e condizioni esistenziali che affiorano alla mente e man mano crescono fino ad assumere corpo e voce. Nel mio lavoro di scrittrice non ho mai preparato scalette, non ho mai formulato tesi, so sempre pochissimo di quel che scriverò e lo scopro giorno dopo giorno, scrivendo. Direi che è esattamente questo il motivo per cui scrivo. Un romanzo è per me una scoperta prima di tutto personale, anche di me stessa. È il mio modo di conoscere la vita e la realtà in cui sono immersa. È sciocco pensare a una separazione tra vita e scrittura, quando si parla di uno scrittore. Ecco perché era impossibile che un’esperienza come quella con i bambini di Rebibbia non si trasformasse in scrittura, per me".

Milena sa cosa si prova quando si viene strappati alla propria madre, e non vuole che accada anche al piccolo Marlon... Come ha lavorato sulla lingua letteraria per raccontare questa particolare forma di dolore?
"Il corpo docile è un romanzo che parla del corpo come gabbia e nello stesso tempo come spazio effettivo del contatto con l’altro. Parla del corpo come spazio su cui si esercita la violenza, quella istituzionale del carcere – che nega al corpo i suoi bisogni, ne sospende i diritti (mi riferisco al razionamento alimentare, all’impossibilità di esprimere la propria sessualità, alla difficoltà di farsi curare, al senso del pudore mortificato dalle perquisizioni corporali o dai denudamenti, alla convivenza civile contraddetta dal sovraffollamento…) – e quella della società, che impone al corpo le sue regole. Ecco perché ogni esperienza di Milena passa per il corpo. Prima Milena era un corpo in simbiosi con quello materno e d’improvviso, a tre anni (cioè quando per legge i bambini sono separati dalle madri, che restano in galera), è diventata un corpo ritratto. Per un bambino – come Milena, come Marlon e tutti i piccoli residenti di Rebibbia che ho conosciuto – questa separazione è incomprensibile e dolorosa. Oggi, nell’indocilità del corpo di Milena a ventiquattro anni, un corpo che si inceppa, che non funziona bene, che la fa sentire inadatta (come prima o poi accade, in modi diversi, a tutti noi), c’è una forma di resistenza a quella conformità che la società pretende da lei e da chiunque. C’è la sua ribellione. Ecco perché ho cercato una lingua corporale, e sensoriale, tattile persino, dove ogni memoria o rimozione fosse una traccia sul corpo, del corpo, dove ogni suono avesse un’eco nelle orecchie. Una lingua che alterna diversi registri, osa essere cruda ma anche dolce, comica o poetica, e si diverte a giocare, nascostamente, persino con il teatro o la filastrocca".
Lei che rapporto ha con la maternità?
"La maternità è diventata per me un tema cruciale dopo che ho scritto Tu (non) sei il tuo lavoro, una pièce teatrale messa in scena dal regista Sandro Mabellini. Ma, ancora una volta, non credo sia casuale che in quella pièce io abbia immaginato una donna ossessionata dal lavoro – perché il suo ruolo professionale le dà un’identità, ma anche perché contrattualmente può perderlo da un momento all’altro – e preoccupata di essere rimasta incinta (e quindi di poter essere costretta a rinunciare a quel lavoro, in una società come quella italiana di oggi). Semplicemente, come per la maggioranza delle donne, la maternità mi si è affacciata come una possibilità da cogliere prima che il tempo scadesse. A un certo punto, nel romanzo, Milena dice: «Non lo sopporto più questo corpo sigillato». È un sentimento che mi appartiene. La maternità è prima di tutto, nei miei desideri, la gravidanza. La meraviglia di ospitare un corpo dentro il tuo corpo. Questa fusione che non è altrimenti possibile nella vita e che in ogni amore, credo, ricerchiamo. Milena almeno la ricerca, nonostante sappia che è impossibile da realizzare. Nello stesso tempo, per come si susseguono gli eventi nel romanzo, Milena forse dimostra di non sapersi davvero prendere la responsabilità di un figlio. E può darsi sia perché non ha risolto il rapporto con sua madre e suo padre, o perché deve uscire dalla gabbia in cui ha rinchiuso la propria esistenza, o perché non ha un compagno che vuole fare il genitore con lei, o perché ha troppa paura. Ecco, credo che anche per me la paura sia ancora più forte del desiderio".
Lei è anche editor per Einaudi Stile Libero: come concilia questa sua attività con quella letteraria? Riesce a essere lo spietato editor di se stessa? Accetta i consigli altrui?
"Certo che accetto i consigli altrui! Ascolto e ragiono sui consigli dei professionisti cui mi affido (in questo caso, oltre al preziosissimo Severino Cesari, che è stato come sempre di un’intelligenza affilata e accogliente, ho avuto il privilegio di confrontarmi anche con Luca Briasco, lucido e appassionato) e su quelli degli amici che stimo. Sono ossessiva, che è peggio di severa, e non lascio nulla al caso. Potrei spiegare la scelta o l’irruzione di ogni mia singola parola in quelle 230 pagine, ma mi interessa molto l’impatto che ciascuna di queste scelte (di struttura, di lingua, di personaggi, di trama) ha su un lettore, e non avrei alcuna obiezione a intervenire o a tagliare, non solo brani, ma interi capitoli, se necessario. L’editing è il momento in cui ogni movimento del libro, anche latente, viene messo a fuoco. È un momento di definitiva presa di coscienza del libro, da parte dello scrittore e da parte dell’editore. Credo nel mio lavoro di editor e prendo con serietà le opere dei miei colleghi scrittori: per questo, da scrittrice, non solo non mi spaventano i consigli di editing, ma li considero un passaggio necessario per il mio romanzo e per qualunque romanzo che stia per essere pubblicato".