Culture

Tutta la verità su un "falso" leopardiano che continua ad essere spacciato per "vero"

di Lucio Felici
Presidente del Comitato scientifico del Centro Nazionale di Studi Leopardiani

 

 

Nel 2011, nell'orgia delle celebrazioni dei 150 anni dell'unità d'Italia, i media  strombazzarono uno scoop che pretendeva di sbalordire gli addetti ai lavori: la scoperta di una poesia inedita di Leopardi intitolata L'Italia agli Italiani, manoscritto appartenente a un pittoresco collezionista di Torre del Greco, Nicola Ruggiero, che fra l'altro, tempo fa, sostenne di possedere il resto dei confetti che avrebbero provocato la morte del goloso poeta per coma diabetico (!). Il manoscritto, datato 1836, è stato fatto oggetto di un libello di Lorenza Rocco Carbone (L'Italia agli Italiani. Versi inediti veri o presunti di Giacomo Leopardi, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2011), la quale, dopo essersi posta prudenti interrogativi, si avventura incautamente in un labirinto di raffronti tematici e stilistici per concludere che, sì, quel testo è proprio di Giacomo. Pensate: nel '36 il poeta quasi cieco dettava all'amico Ranieri i versi della Ginestra e del Tramonto della luna, e, intanto - secondo Rocco Carbone - sarebbe tornato alla poetica delle giovanili canzoni patriottiche, buttando giù degli orrendi endecasillabi che nessun lettore di buon senso potrebbe attribuirgli e che, per di più, traevano futile occasione dal progetto di un monumento, a Milano, alla cantante Maria Malibran idolo della Scala. Eppure della presunta scoperta tanto, troppo si è parlato, e il libello è stato       presentato e discusso anche in sedi autorevoli, persino, il 18 agosto 2011, presso la prestigiosa Fondazione Giambattista Vico di Napoli.

Che l'inedito fosse un falso niente affatto inedito lo sapevano, ai tempi loro, Giacomo, i suoi parenti e i suoi amici: per sincerarsene basta consultare l'Epistolario leopardiano con i corrispondenti a cura di Franco Brioschi e Patrizia Landi (Torino, Bollati Boringhieri, 1998, 2 voll.). Tuttavia, per dissipare ogni ombra, ho voluto approfondire il "caso" addentrandomi in pazienti ricerche (anche con l'aiuto di amici generosi) confluite in un documentatissimo articolo uscito nel n. 9/2013 della "RISL-Rivista Internazionale di Studi Leopardiani", organo ufficiale del Centro Nazionale di Studi Leopardiani, in appendice (pp. 18-26) al testo della conferenza su L'italianità di Leopardi che avevo tenuto il 29 giugno 2012 nell'Aula Magna del Comune di Recanati.

L'articolo disegna il ritratto del vero autore di quei versi (Pietro Leopardi, un patriota un po' ambiguo che non aveva alcuna parentela con Giacomo), ricostruisce l'occasione che lo indusse a improvvisarsi poeta, esamina l'edizione a stampa del componimento (Parigi, Baudry, 1836) e la confronta con la copia manoscritta contrabbandata come autografo leopardiano, riporta le lettere di Giacomo, Monaldo, Paolina e altri che documentano l'inevitabile confusione avvenuta tra i "due Leopardi", sconosciuti l'uno all'altro. In una lettera a Ferdinando Maestri, scritta da Napoli il 5 maggio 1837, Giacomo così si lamentava: "Alle innumerevoli mie sventure s'è aggiunta in questi ultimi anni una mano di Leopardi ch'è venuta fuori con le più bestiali scritture del mondo, l'ignominia delle quali ritorna sopra l'infelice mio nome, perché il pubblico non è né capace né curante di distinguere le omonimie".

Ruggiero e Rocco Carbone hanno provveduto a rendere attuale l'amaro pronostico. Per inciso va sottolineato che l'edizione a stampa dei versi di Pietro Leopardi non è quasi introvabile, come essi sostengono, tant'è vero che ho potuto accedere senza difficoltà a un esemplare conservato nella Biblioteca di Storia moderna e contemporanea di Roma, per poi studiarmelo attentamente. Spente le luci delle celebrazioni, si sperava che l'ingannevole "caso" fosse chiuso e riposto nel dimenticatoio. Invece il prossimo 25 settembre il libello sarà di nuovo presentato a Roma, nella solenne Sala Borromini, tra gli "eventi" (termine abusato che richiama il vento dei discorsi avventati) organizzati da un'istituzione culturale e statale qual è la gloriosa Biblioteca Vallicelliana. E, quasi si trattasse di un "caso" di questi giorni, subito agenzie di stampa e siti vari in rete hanno ridato fiato alle trombe che ci assordarono, senza ritegno, due anni fa. Per il rispetto che si deve a Leopardi - il quale bollò quei versi come "le più bestiali scritture del mondo" - invito a leggere il mio articolo nell'Archivio on line del Centro Nazionale di Studi Leopardiani, cliccando su http://www.centrostudileopardiani.it/archivio.html (l'appendice riguardante il falso è alle pagine 18-26).


Ringrazio "Affari italiani", in particolare Virginia Perini, per l'attenzione che si vorrà riservare a questo mio comunicato.