Banca d'Italia, Visco non molla. Il caso Napolitano dietro il siluro di Renzi
Nessun passo indietro del governatore di Via Nazionale, nonostante la discontinuità richiesta dalla maggioranza delle forze politiche in Parlamento. Ecco perché
di Andrea Deugeni
e Luca Spoldi
Nessun passo indietro di Ignazio Visco. Anche se la delegittimazione "politica" del primo partito che sorregge il premier Paolo Gentiloni, a cui spetta (nelle prossime due settimane, quando scadrà il mandato di sei anni dell'attuale governatore) proporre il nome del prossimo timoniere della Banca d'Italia, è forte. Significherebbe, sono i rumors raccolti da Affaritaliani.it in Via Nazionale, avallare da parte dell'economista napoletano le critiche che arrivano dalla maggioranza del Parlamento (Pd e Movimento 5 Stelle) all'azione di vigilanza della Banca d'Italia negli anni dei crac bancari. Da Popolare dell'Etruria fino alla capitolazione delle banche venete salvate soltanto grazie all'intervento di Banca Intesa.
Mentre i mercati sono indifferenti al cortocircuito tutto italiano (le sorti del sistema bancario italiano si decidono a Francoforte), funzionari di Palazzo Koch riferiscono di un Visco molto irritato. Non tanto per il fuoco incrociato 5 Stelle-Dem che dura da mesi (le critiche di Renzi all'operato di Via Nazionale non sono certo un mistero dell'ultima ora), ma per l'irritualità dell'azione politica: una mozione arrivata quando la procedura di nomina del governatore, di stretta competenza del Quirinale (serve un decreto del Presidente della Repubblica) e fatta di concerto con il Consiglio superiore della Banca d'Italia, processo che mira a garantire l'indipendenza dell'authority, è entrata nel vivo.
Gli esegeti della politica leggono la mossa del Pd in due modi. Il primo: inseguendo la mozione anti-Visco proposta anche dai pentastellati, Renzi, ormai in campagna elettorale in vista delle elezioni politiche di marzo 2018, ha preparato uno scudo politico agli attacchi del movimento di Beppe Grillo, potendo scaricare nelle settimane successive alla riconferma dell'attuale vertice le responsabilità del secondo mandato all'attuale governatore sul Quirinale e sul premier Gentiloni. I 5 Stelle stanno cavalcando il malcontento diffuso (oltre il 60% dei lettori di Affaritaliani.it interpellati dal sondaggio odierno si sono detti d'accordo con la mozione del Pd) sull'azione della Banca d'Italia nell'era del "risparmio tradito" e il segretario Dem ne è ben consapevole. Meglio attrezzarsi, dunque.
Il secondo: attaccando Visco, Renzi ha consumato un altro regolamento dei conti interno ai Dem contro quelle voci critiche della minoranza e degli ex Bersaniani, segnando così un ulteriore punto di distanza contro l'ex presidente della Repubblica Giorgio Napolitano (di cui Visco è un pupillo e che lo ha voluto dopo Draghi), il quale già sulla riforma elettorale si era schierato contro le scelte del Nazareno. Una bocciatura da parte di uno dei grandi vecchi del Pd arrivata alla vigila delle celebrazioni e del tagliando simbolico dei dieci anni del partito.
E ora? Si sa, il nome di Renzi per l'incarico a Palazzo Koch è quello di Salvatore Rossi, direttore generale e presidente dell'Istituto per la vigilanza sulle assicurazioni (Ivass), ma a questo punto il rinnovo di Visco, che gode anche dell'appoggio del numero uno della Bce Mario Draghi con cui Gentiloni e Mattarella si sono consultati, è quasi certo. Una continuità che mira a garantire l'indipendenza dell'operato di Via Nazionale, un sancta sanctorum istituzionale, dalla baruffe parlamentari.
Eppure, non è la prima volta che la politica cerca di condizionare la nomina e l’operato dei vertici della banca centrale italiana. L’attacco del Pd fa tornare infatti d’attualità una storia di rapporti non sempre distesi (per non dire spesso tesi) tra la politica italiana e la tecnocrazia di Via Nazionale.
Fondata nel 1893, Banca d’Italia è guidata da un governatore solo dal 1928: in precedenza ne faceva le veci il direttore generale, ancora oggi considerato il numero due dell’istituto. Fino al 2005 la carica di governatore era “a vita”, ossia senza limite di mandato, mentre da quell’anno con l’entrata in vigore della legge n. 262 (Disposizioni per la tutela del risparmio e la disciplina dei mercati finanziari) si cambia il regime con quello attualmente in vigore.
De facto la norma del 2005 è stata votata per evitare la permanenza a tempo indeterminato di governatori (“tecnocrati non eletti” per dirla come alcun leader populisti) rivelatisi inadatti al compito. Ma al tempo stesso la nuova norma rischia di condizionare fortemente l’indipendenza dei vertici di Banca d’Italia al gradimento del governo in carica. Il caso più clamoroso di ingerenza della politica è certamente quello di Paolo Baffi, succeduto nel 1975 al dimissionario Guido Carli (per motivi mai del tutto chiariti), poi divenuto presidente di Confindustria dal 1976 al 1980. Baffi voleva che Via Nazionale riacquistasse la propria autonomia di azione “ormai molto ridotta a causa della pesante e crescente immobilizzazione dell'attivo in prestiti all’Erario”.
Un atteggiamento unanimamente apprezzato in ambito economico, ma che costò a Baffi un attacco frontale nel 1979 quando venne incriminato con l’accusa di favoreggiamento e interesse privato in atti d’ufficio a causa di un’inchiesta incentrata proprio sul presunto mancato esercizio di vigilanza sugli istituti di credito (la stessa accusa, curiosamente, che viene oggi mossa neppure troppo velatamente a Visco) aperta da due giudici, Antonio Alibrandi e Luciano Infelisi, che le cronache dell’epoca descrissero molto vicini alla famiglia Caltagirone (all’epoca pesantemente indebitata) e alla Democrazia Cristiana.
Baffi evitò l’arresto, che invece tocco a Mario Sarcinelli, vicedirettore generale e responsabile della vigilanza. Nel 1981 entrambi vennero completamente assolti dalle accuse ed in seguito è circolato il sospetto che l’intera vicenda fosse servita a evitare che Banca d’Italia effettuasse un’accurata ispezione del Banco Ambrosiano di Roberto Calvi, implicato in alcune tra le più oscure vicende della Repubblica inclusa la P2. Dopo le dimissioni, date per non intaccare il buon nome di Banca d’Italia, a Baffi pervennero attestati di stima da esponenti dell’economia e della finanza mondiale e da molti uomini di governo (tra cui Giovanni Spadolini, che due anni dopo gli offrì il posto da ministro del Tesoro nel suo primo governo, da Baffi rifiutato).
Meno rocambolesca ma comunque condizionata dalla politica anche la carriera di Carlo Azeglio Ciampi, che subentrò a Baffi per poi dimettersi nel 1993 e diventare il primo presidente del Consiglio dei ministri (e in seguito primo presidente della Repubblica) non parlamentare, anche se non il primo governatore a diventare in seguito presidente (dato che vi era già stato il precedente di Luigi Einaudi). Ciampi venne chiamato dall’allora presidente Scalfari alla guida di un “governo tecnico” in uno dei momenti più difficili della storia della Repubblica, poco dopo lo scoppio dell’inchiesta di “Mani Pulite”, con la delegittimazione della dirigenza politica del paese e pesanti attacchi alla lira.
Neppure il successore di Ciampi in Banca d’Italia, Antonio Fazio, economista, riuscì a evitare che la politica gli attraversasse pesantemente la strada facendone deragliare la carriera: fu infatti costretto a dimettersi, nel 2005, a causa di un’inchiesta aperta sulle pressioni esercitate affinché Via Nazionale approvasse l’Opa della Banca popolare di Lodi guidata da Giampiero Fiorani, un banchiere molto vicino a Fazio, su Banca Antonveneta (operazione già bocciata dai responsabili della vigilanza). Per questa vicenda nel 2011 Fazio è stato condannato dal Tribunale di Milano a 4 anni di reclusione e un milione e mezzo di euro di multa per aggiottaggio. La condanna, ridotta a 2 anni e mezzo di reclusione, è stata poi confermata in via definitiva dalla Corte di Cassazione il 28 novembre 2012.
Le vicende di Fazio portarono alla decisione di rivedere le norme sulla nomina e durata del governatore di Banca d’Italia, ma per fortuna Mario Draghi, ex direttore generale del Tesoro e suo successore in Via Nazionale, non ha avuto alcun problema con la politica. C'è tuttavia chi fa notare che Draghi è certamente stato il più “politico” tra i governatori della Banca d’Italia anche per le sue apprezzate capacità di mediatore, doti che ha ampiamente sfruttato dopo la nomina a presidente della Bce per ricondurre ad un’unità operativa le diverse visioni presenti all’interno del board di Eurotower.
Proprio con le dimissioni, nel 2011, di Draghi, volato a Bruxelles, si è arrivati alla nomina di Visco, fino a quel momento vicedirettore generale di Via Nazionale. Il resto è cronaca di questi giorni, con le polemiche per le presunte omissioni di Bankitalia nella crisi esplosa per l’impennarsi delle sofferenze su crediti nei bilanci delle principali banche tricolori. Una crisi che ha finito col coinvolgere, più o meno direttamente, istituti “vicini” sia al Centrosinitra (Mps e Popolare Etruria) sia al Centrodestra (Banca Carige). E così siamo daccapo, con le strade della politica e della tecnocrazia italiana che tornano a incrociarsi.