Cgil, massimalista o calabrache?
Di Massimo Falcioni
Nei tempi d’oro del sindacato era l’”autunno caldo”, con i metalmeccanici in testa, ad aprire la stagione delle lotte contro il padronato per le vertenze contrattuali e contro il governo per una nuova politica economica. Adesso, dopo i mesi autunnali e invernali sindacalmente tiepidi, si annuncia una primavera di mobilitazione con le “tute blu” decise a incrociare le braccia se il 15 marzo Federmeccanica non scioglierà i nodi del nuovo contratto, specie sul salario, e con la leader Cgil Susanna Camusso pronta per la sfida al Governo su sviluppo, occupazione, welfare e pensioni: “ Non pensino che ci fermeremo, saremo come la goccia che scava la roccia”.
Come una rondine non fa primavera, non è una vertenza con il padronato o una minaccia all’esecutivo a rimettere in gioco il sindacato che ha perso potere politico e contrattuale ed è recepito dai cittadini, al pari dei partiti, come casta, una centrale di potere e di business, di difesa di privilegi corporativi e non di interessi generali, un trampolino per l’esercito dei “distaccati”, una catapulta per far carriera, fino ai vertici dello Stato. Un giudizio drastico: organizzazioni non trasparenti, burocratizzate e istituzionalizzate dentro il sistema di potere partecipando ai fondi pensione, a quelli sanitari, agli enti bilaterali firmando contratti che determinano relazioni burocratiche con le imprese, chiedendo oggi invano un posto ai tavoli del governo Renzi che “snobba” il sindacato mirando a colpirne la residua autorevolezza e credibilità.
Iniziative e proteste sindacali non mancano, spesso solo atti dimostrativi: uno sfogatoio, una chiamata di correo per tutti gli scontenti, con davanti quel popolo della sinistra multicolore che oggi alza il cartello dei “NO” a Renzi, al suo Pd e al suo governo e sfila con le bandiere della Cgil, sotto la cui ala protettrice c’è posto per tutti e per obiettivi anche extra sindacali.
E’ il solito refrain. Ma il quadro è mutato. La globalizzazione ha acuito la fragilità dell’economia italiana. Il mercato globale ha spiazzato il sindacato cullato sugli allori, con analisi e strategie inadeguate sul nuovo mondo del lavoro (le nuove tecnologie, i nuovi mercati, le nuove professionalità, la manodopera straniera, i movimenti degli immigrati ecc.) e su quello della controparte, non più i vecchi conosciuti padroni ma le indefinite lobby, le corporation, la finanza e le bed company costruite a scatole cinesi nella logica di una economia “fasulla” cosiddetta di “arcipelago”, fluttuante.
La crisi feroce ha riaperto la guerra fra “poveri”: uno tsunami che ha ricacciato il sindacato nella risacca corporativa, a difesa dei “garantiti”, subendo la catastrofe del precariato e di una disoccupazione senza più argini, la ritirata su diritti e welfare. Di Vittorio rivendicò alla Cgil il merito di aver insegnato al bracciante che non ci si toglie il cappello davanti al padrone. E oggi?
Con una tale recessione e con una politica di sviluppo attorno allo zero il sindacato gira a vuoto aggravando lo “status” dei lavoratori perché le lotte stesse provocano una ulteriore caduta della domanda interna avvitando la crisi su se stessa. Fra gli imprenditori, c’è chi accetta la sfida del mercato investendo su qualità, ricerca, nuovi mercati e chi ripiega delocalizzando o tornando al muso duro tagliando salari e diritti.
Il premier Renzi irride ai sindacati: “La pacchia è finita”, balla sul trapezio delle riforme, una rivisitazione confusa e pasticciata della linea di sinistra “conservatrice” alla Tony Blair.
I nodi del sindacato non sono solo figli della congiuntura, sono politici e riguardano la sua inadeguatezza strategica e programmatica, la sua autonomia a corrente alternata, il suo gap democratico, l’unità sempre enunciata e mai raggiunta.
La Cgil resta in bilico fra passato e presente, fra massimalismo e moderatismo. Da una parte subisce l’attacco di chi la considera sindacato di stampo ideologico, massimalista, settario, di opposizione, ancorato alla concezione marxista dell’operaio alienato e sfruttato dal padrone, con il lavoro inteso come diritto mai come dovere, con la demonizzazione del profitto, quindi con una visione classista della storia e dei rapporti sociali, con il mondo del lavoro in contrapposizione al mondo del capitale e con l’obiettivo dell’egemonia della classe lavoratrice. Da qui la rincorsa delle rivendicazioni; l’appiattimento delle retribuzioni per un esasperato egualitarismo; un linguaggio ambiguo per mantenere la precaria unità sindacale senza affrontare le diversità delle posizioni; la verità nascosta negando la realtà come la crescita dei salari superiori all’aumento del costo della vita; l’ambiguità sulle forme di lotta che colpiscono i cittadini e paralizzano anche servizi essenziali; l’assenteismo, coprendo anche parassitismi, sprechi, esasperazioni corporative, con una difesa rigida della sopravvivenza di tutte le fabbriche, anche dissestate e decotte. La lista è lunga.
Dall’altra parte, la Cgil è bollata come sindacato integrato, rinunciatario, calabrache.
Troppe volte le bandiere e gli slogan sono serviti a nascondere l’assenza delle proposte. E a coprire la difesa delle categorie più forti a scapito dei soggetti più deboli. Persino a coprire le “malefatte” dei lavoratori, spesso non coerenti con la sbandierata superiorità “morale”.
La storia dice che le sconfitte del sindacato sono il frutto dei suoi errori e servono drastici mutamenti di uomini e di rotta per superarli. La Cgil mette la mordicchia a chi chiede una verifica politica della linea confederale (vedi Landini), sbandierando i numeri: i 5 milioni di iscritti e le vittorie nelle Rsu, orgoglio per l’organizzazione di Corso d’Italia dove da sei anni il timone è nelle mani di Susanna Camusso, volonterosa realista ma debole animatrice di un rinnovamento più di facciata che di sostanza, ben lontana dal carisma innovativo di Luciano Lama e dalla sua “paziente fermezza”.
Se la Cgil “non tira, tutto il sindacato resta nel pantano trascinandoci i lavoratori e il Paese. Serve un cambio di passo, una profonda autocritica. Come quella di Lama quando dichiarò che “un sistema economico non sopporta variabili indipendenti, neppure il salario” e andò in fabbrica a chiedere sacrifici agli operai o quando tolse la maschera ai fomentatori della violenza e del terrorismo dicendo che erano: “nemici da combattere e non compagni che sbagliano”. Vigeva la prassi del confronto senza veli, della lotta politica aperta, mettendosi in gioco.
Altre volte la Cgil è stata rivoltata come un calzino applicando la pratica severa del dirigente che deve rispondere degli errori e delle sconfitte subite, pagando di persona. Non servono capri espiatori ma analisi e verifica politica, volontà di svolta reale e atti concreti di cambiamento.