Economia
Conti pubblici, tegole per il Salvimaio. Frenano le entrate, corre il debito
Se la tendenza non si invertirà nei prossimi mesi, potrebbe essere necessario un aumento almeno parziale dell’Iva
Domanda da esame di macroeconomia base: cosa succede ad un paese molto indebitato quando la crescita scivola al di sotto del costo del suo debito pubblico, in assenza di ogni ulteriore variazione? Risposta: il debito pubblico tende ad aumentare. Ed è esattamente quanto capita ormai con regolarità alla Repubblica Italiana, che a fine febbraio ha visto salire a 2.363,6 miliardi il debito della sua pubblica amministrazione, contro i 2.363,4 miliardi di fine gennaio. Non solo: la Banca d’Italia ha anche rivisto al rialzo i dati del debito pubblico di fine 2016 (+0,8 miliardi), fine 2017 (+5,5 miliardi) e 2018 (+5,3 miliardi a quota 2.322 miliardi circa), arrivando al 132,2% del Pil.
Il che vorrebbe dire che, fatto salvo correzioni da effettuare alle diverse stime, nei successivi due mesi il debito sarebbe lievitato di ulteriori 41,5 miliardi, vale a dire di un 2,3% rispetto al Pil. Un “boom” che sembrerebbe spiegarsi almeno in parte con un calo delle entrate complessive dello stato, scese a febbraio a 31,2 miliardi di euro dai 37,4 miliardi di gennaio in gran parte a causa di minori entrate fiscali per 5,6 miliardi (da 34,5 a 28,9 miliardi).
Ultimo ma non meno importante dato negativo, in febbraio il fabbisogno della pubblica amministrazione è invece aumentato e non di poco: 10 miliardi di euro contro i 6,9 miliardi del mese precedente. Una parte del peggioramento, ha avvertito la Banca d’Italia, è dovuta all’ampliamento del perimetro delle amministrazioni pubbliche come definito dall’Istat in accordo con l’Eurostat, ma si è trattato di un effetto “di entità limitata”. E tuttavia anche questo è un campanello d’allarme che non può non preoccupare il Salvimaio: mentre il governo promette misure per la crescita che, per ammissione del suo stesso Def, avranno comunque una portata limitata (+0,1% di Pil se le stime saranno rispettate), il rallentamento sperimentato dall’economia italiana rischia di far ulteriormente lievitare il debito/Pil aprendo nuove falle nei conti pubblici.
Viene infatti da chiedersi cosa succederà se il Pil non dovesse sperimentare la “crescita sostenuta” nel secondo semestre dell’anno che per il ministro dell’Economia e finanze è la condizione alla base della previsione di una crescita dello 0,2% del Pil nel 2019 nel suo complesso. In realtà non è difficile immaginarlo: con un Pil reale stabile e un’inflazione che a marzo è apparsa pari all’1% su base annua, contro interessi sul debito pubblico che il Def stesso prevede pari al 3,6% del Pil il debito/Pil è destinato a peggiorare anche oltre il 132,6% già messo in conto dal governo per fine 2019. Decisamente non una bella notizia per un governo che si propone di incrementare nei prossimi tre anni la spesa per le politiche del lavoro e delle pensioni (col reddito di cittadinanza e quota 100) di circa 95 miliardi di euro, pari al 5,6% del Pil, il tutto ancora prima di valutare il costo dell’introduzione della “flat tax”.
Una cifra, già questa, che andrebbe recuperata sperando in incrementi del Pil reale e inflazione per non far esplodere definitivamente i rapporti deficit/Pil e debito/Pil, ai quali guardano oltre e più che i “gufi” di Bruxelles e del Fondo monetario internazionale gli stessi investitori mondiali. Investitori che appena fiutassero odore di un andamento dei conti strutturalmente divergente dalle previsioni potrebbero semplicemente scaricare, ancora una volta, titoli di stato e altri asset italiani, facendo ulteriormente lievitare lo spread di rendimento e l’onere di rifinanziamento del debito pubblico ed allontanando, forse definitivamente, ogni speranza di una più ampia riforma del sistema fiscale italiano che consenta di ridurre la pressione fiscale dando così un sostegno più significativo alla crescita.
A quel punto la situazione potrebbe farsi politicamente incandescente, imponendo o di rinunciare ad una o entrambe le iniziative di spesa di Lega e M5S o di trovare adeguate coperture rassegnandosi a far scattare le clausole di salvaguardia, con un incremento almeno parziale dell’Iva, magari partendo dalle aliquote agevolate anziché da quella ordinaria (si è parlato in queste settimane di possibili ritocchi al 12% di quella al 10% e al 6% di quella al 4%). Il tutto sperando che i segnali di ripresa giunti in questi ultimi giorni si consolidino e consentano un recupero delle entrate, se non altro per continuare a sperare in un varo l’anno prossimo o ancora più in là della “flat tax”.
Luca Spoldi