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Economia
Ex-Ilva, ArcelorMittal tiene sotto scacco l'acciaio europeo
Adolfo Urso, Giancarlo Giorgetti e Lucia Morselli

Ex-Ilva, così ArcelorMittal tiene sotto scacco l'Europa

L'ex Ilva costituisce una notevole sfida. Il 22 dicembre prossimo potrebbero esserci sviluppi significativi. Si rendono necessari tra i 320 e i 350 milioni di euro per chiudere il bilancio di quest'anno. Emergono complicazioni con il settore privato e intricati nodi, già stretti anni fa, che ora si manifestano apertamente. La questione critica per l'industria dell'acciaio italiana, Taranto, si colloca al centro di una problematica formata da tre anelli concentrici. Il primo riguarda la sfera regionale, con logiche politiche legate al Partito Democratico che spesso hanno deviato le iniziative in direzione diversa dal possibile rilancio. Questo è riportato da La Verità. Segue l'anello nazionale ed europeo, con complessi aiuti di Stato, transizione ecologica e stringenti vincoli imposti da Bruxelles. Infine, c'è un cerchio globale, con le difficoltà nel proteggere un settore strategico dagli attacchi provenienti da Asia e Stati Uniti. 

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Ad agire con astuzia in mezzo a questa tempesta di deglobalizzazione c'è ArcelorMittal, uno degli elementi chiave che interagisce con i tre cerchi. Nel 2018, Lucia Morselli, attuale CEO di Acciaierie d'Italia, dichiarava in un'intervista ad Affari e Finanza che Taranto sarebbe stata per Arcelor "una delle molte filiali di un impero che ha il suo centro altrove". Sebbene la Morselli fosse all'epoca al comando della cordata perdente, Acciaitalia, un anno dopo ha cambiato fazione ma la sua previsione è rimasta valida. Questo è stato evidente negli ultimi cinque anni, dove lo stabilimento produce a malapena 3 milioni di tonnellate di acciaio, e in meno di sei mesi sono stati chiusi due altoforni. Quello spento a giugno non è stato riavviato, e il numero 2, spento lo scorso martedì, probabilmente subirà la stessa sorte. Tuttavia, niente è più permanente del provvisorio. Per comprendere meglio la strategia di Arcelor e i rischi che coinvolgono non solo l'Italia ma l'intera Europa, è opportuno sollevare lo sguardo dalla mappa della Penisola e osservare le pedine che il colosso franco-indiano, con sede in Lussemburgo, ha posizionato lungo il Vecchio Continente. Oltre all'Italia, il gruppo ha interessi in Polonia, Germania, Francia, Belgio e Bosnia Erzegovina (dove lo stabilimento è stato fermato l'altro ieri). Tra gennaio e settembre di quest'anno (dati raccolti da analisti specializzati di Gmk), tutte le divisioni europee hanno ridotto la produzione dell'8% rispetto allo stesso periodo del 2022. 

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La produzione totale del 2022 è stata di 32 milioni di tonnellate, rispetto alle 36 del 2021. Nel 2019 era di 40 milioni. Quest'anno probabilmente non supererà la soglia di 29 milioni. È superfluo ribadire che impianti importanti come quelli di Fos-sur-Mer, Brema e Gent in Belgio, così come Taranto, sono tutti fermi per manutenzione. L'effetto è evidente: l'azienda sta creando un restringimento. Riducendo la produzione, i prezzi a valle aumentano. Nel contempo, il colosso franco-indiano è consapevole che l'importazione è limitata per scelta di Bruxelles, costringendo i consumatori a rivolgersi allo stesso fornitore di Arcelor. È vero che a livello globale Arcelor ha significativamente ridotto la produzione. Tuttavia, se confrontiamo la frenata in Europa nei primi nove mesi di quest'anno con quella di tutte le divisioni di Arcelor, emerge chiaramente la differenza. Qui, i tagli sono dell'8%, mentre a livello globale sono del 13%. È evidente che in qualche modo si sta influenzando il mercato dell'acciaio. Le aziende europee spendono considerevolmente, affrontando bollette elevate, mentre il colosso genera profitti, superando il miliardo nel 2022. L'ultimo trimestre ha registrato quasi un miliardo di utili, con una redditività strutturalmente migliorata. Forse è giunto il momento che l'Europa rifletta sulle proprie dinamiche industriali. Non è sostenibile che colossi stranieri mettano in difficoltà un continente che continua a finanziare tali aziende per la transizione ecologica degli impianti. Le eccessive regolamentazioni, i dazi e i divieti agli aiuti di Stato stanno creando distorsioni difficili da correggere. 

L'Europa deve ritornare a essere produttrice di acciaio. Già soffre perché non controlla le materie prime in ingresso, e se diventa anche vittima degli schemi che ha costruito, non riuscirà a gestire i flussi di semilavorati. In questo modo, si troverà schiacciata dalla concorrenza di Cina e Stati Uniti. Considerando la situazione, risulta quasi ridicolo dedicare mesi a definire regole per le abitazioni ecologiche, regole che non porteranno alcun beneficio ambientale. Allo stesso modo, discutere per mesi sul futuro del settore degli imballaggi, con il rischio concreto e imminente di distruggere posti di lavoro e filiere tecnologiche avanzate, non fa che acuire la situazione. Non è necessario ribadire le decisioni prese in merito al motore a scoppio e agli obblighi di transizione alle batterie elettriche. Cosa succederà? Le previsioni non sono difficili da fare. Al di là dei prodotti di fascia alta, la concorrenza diventerà insostenibile. Nuove aziende arriveranno sfruttando, con le dovute variazioni, le stesse opportunità offerte ad Arcelor. Ciò indica che Bruxelles non ha una strategia e, ancor meno, la flessibilità necessaria per fronteggiare gli imminenti colpi. La situazione coinvolgerà il settore automobilistico, così come quello dei microchip. E sta accadendo anche nell'industria dell'acciaio. I numeri sono eloquenti. Forse è giunto il momento di un intervento congiunto non solo contro Arcelor, ma a favore dell'intero settore produttivo europeo.

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