Economia
La ricetta per il turbo in Borsa? Meno banche e più Made in Italy
Nel listino principale il titolo Ferrari (+30% da inizio 2018) ormai ha raggiunto la stessa capitalizzazione di Generali
Lo storytelling – l’arte di trasformare informazioni e dati in strategie di comunicazione persuasiva - è una tecnica notoriamente vincente. Iliade e Odissea, ma ancor più vistosamente l’Eneide, oltre ad essere capolavori assoluti, sono i capostipiti della narrazione persuasiva a fili propagandistico-politici. Pensate che nell’Eneide quel genio di Virgilio, mantovano di solidissimo talento, costruisce da zero un convincente "mito della fondazione" che lega Roma alla tradizione omerica, glorifica i valori romani e legittima la dinastia Giulio-Claudia quale “naturale” discendente degli dèi fondatori di Roma e di Troia. Mica gattini su internet.
Lo storytellig però, come sanno bene i politici che ne hanno fatto uso ed abuso (uno su tutti, Tony Blair) è come lo spritz, una volta che lo assaggi non puoi più farne a meno. Peccato che, a differenza della nobile bevanda del Triveneto, a furia di narrazione persuasiva il narratore perda la traccia e con essa il senso della misura: qualcuno ricorda la faccia di Colin Powell quando usando prove false legittimò l’invasione dell’Iraq? Powell parlava di un “grosso faldone dei servizi segreti sulle armi biologiche dell’Iraq” e di laboratori mobili per la produzione di quelle armi. Anni dopo si scoprì che il principale autore di quelle testimonianze, un ingegnere chimico iracheno, si era inventato tutto.
Lo storytelling è come il canto delle sirene, magico e mortifero. Andrebbe ascoltato come l’astuto Ulisse, solidamente legato all’albero maestro mentre i compagni resi sordi dalla cera nelle orecchie portano in salvo la nave.
Lo storytelling a volte è magico, molto più spesso sciatto e banale, sempre mortifero come un sub-prime tossico.
Il più nefasto degli storytelling, quello che viene continuamente ripetuto come una preghiera tibetana, riguarda le ragioni del cambiamento che stiamo vivendo negli ultimi anni. E di come sia possibile affrontarlo e neutralizzarlo. Le narrazioni sono due: da un canto si leva il mantra sovranista che postula la chiusura delle frontiere e del “prima gli italiani”; dall’altro rispondono le cinciallegre dell’ottimismo che indicano nella formazione permanente il rimedio per l’operaio generico che ha perso il posto. Vade retro immigrato, strillano gli uni. Studiate e specializzatevi, sdottorano gli altri.
Per comprendere dove stia la verità, ammesso che ce ne sia una sola, chiediamo aiuto ai nostri amici più fidati, i numeri. Due categorie di numeri: demografia e capitale.
Cominciamo dai secondi. Nel 2006 le prime cinque società americane per capitalizzazione erano Exxon, General Electric, Microsoft, CtyGroup, Bank of America. Solo dieci anni dopo, la classifica che pareva solida come un calorifero di ghisa è sconvolta. Nel 2017 la top five recita Apple, Google, Microsoft, Amazon, Facebook. Il profumo è radicalmente cambiato: è l’odore della tecnologia.
Tecnologia significa intelligenza artificiale, robotica, automazione industriale: migliaia, centinaia di migliaia, di posti di lavoro a bassa o bassissima intensità intellettuale cremati nel giro di un decennio, spariti come Topo Gigio dai programmi tivù. Lavori che non torneranno più. Il robot non si ammala, non sciopera, non sbaglia mai e produce molto di più. Taxi senza autisti, metropolitane senza conducenti, navi senza marinai, catene di montaggio prive di umani, banche senza bancari… non è il futuro, è oggi.
L’altro dato si chiama pressione demografica. Mentre l’Europa invecchia (l’Italia è il paese al mondo più vecchio dopo il Giappone) e il saldo tra nascite e morti è pesantemente negativo, l’Africa giovane e disperata - il continente col più alto tasso di natalità del pianeta - preme alle nostre porte. Cambiamenti climatici, miseria e guerre feroci spingono milioni di persone a intraprendere il viaggio che già compirono quando milioni di anni fa popolarono la Terra.
Questi numeri sono semplici da leggere e soprattutto non mentono. Richiedono consapevolezza, lucidità e pensiero critico, non fiabe rassicuranti. Abbiamo visto dove va il capitale negli USA, del paradigma tecnologico che ha sconvolto i vecchi equilibri di potere, del cambiamento che ha trasformato il mondo.
Cosa c’entra tutta questa storia con Piazza Affari? Centra eccome, perché mentre Wall Street a 10 anni dalla grande crisi e dal fallimento della Lehman Brothers, quella che fu la terza più grande banca d’investimenti, si rigenera da ogni crisi e vede proprio alla vigilia di quel terribile anniversario risorgere e toccare nuovi record anche grazie alle continue rivoluzioni e cambi di pelle, in Italia la geografia del nostro listino sembra immutata, immobile come la pietra e ancorata alla preistoria. Eni, Enel, Generali, Unicredit e Intesa erano le prime 5 società più importanti e di maggior peso a Piazza Affari nel 2006 e sempre Eni, Enel, Generali, Unicredit e Intesa sono oggi, 12 anni dopo le 5 società più importanti del listino. Cambiando l’ordine dei fattori, il risultato è sempre lo stesso, loro a record, noi ancora sui livelli del 2009, ovvero -60% dai massimi.
Eppure, anche se a prima vista la cartina geografica del listino finanziario italiano sembrano sempre identiche, osservando con maggiore attenzione si può notare che molti confini sono cambiati, spostandosi a favore di un settore più di un altro, specialmente di quello finanziario.
Industria, tessile abbigliamento e accessori, Auto – gomma, farmaceutico, metallurgico e siderurgico, sono tutti settori che stanno schiacciando in un angolo gli storici Assicurazioni, Finanziarie e Banche. Su tutti però a primeggiare ci sono i macro settori FTSE Mid Cap e il FTSE Star i veri fiori all’occhiello della bella Italia, quella che cresce sia internamente e sia attraverso l’export, che crea posti di lavoro, innovazione e fa splendere il made in Italy che tutto il mondo ci ammira.
Nonostante questi cambiamenti e conquiste, se guardiamo il granitico FTSE Mib, l’indice di riferimento per gli investitori internazionali notiamo che su 40 società, ben 13 (1/3 del listino) è ancora dominato dal settore finanziario, penalizzato dalle basse quotazioni che a cascata penalizza l’andamento dell’indice generale, schiacciandolo sul fondo.
Azimut, Banca Generali, BPM, Banca Mediolanum, BPER, Finecobank, Generali, Intesa, Mediobanca, UBI, Unicredit, Unipol e UnipolSai, di tutte queste solo Fineco è in positivo e spicca con un’ottima performance, tutte le altre da inizio 2018 sono chi più e chi meno in forte ribasso.
Rapporti di forza che meritano una svolta, non solo per le rivoluzioni economiche e industriali che in Usa sono già in corso, ma anche e per l’appunto dovute alle performance di bilancio e di prestazione borsistica. Alcuni esempi possono far capire quanto sia ingiusto questo trattamento verso alcuni titoli italiani e che porterebbero anche maggior beneficio alla nostra borsa.
Per esempio nel listino principale il titolo Ferrari (+30% da inizio 2018) ormai ha raggiunto la stessa capitalizzazione di Generali, quello che è considerato come uno dei giganti. Ma non è il solo, perché anche Luxottica (+12% nel 2018) con oltre 27.000 miliardi di capitalizzazione ormai è alla stregua di Unicredit. Ma non sono gli unici casi eclatanti, ancor di più lo è Moncler (+50% da inizio 2018) che da sola capitalizza quanto la somma di FinecoBank, Azimut e Banca Generali. Oppure Brembo, azienda che produce freni per marchi di eccellenza e che in borsa ha prodotto delle accelerazioni incomparabili (dal minimo del 2009 a oggi fa +3.200% di rendimento più i dividendi) ha ormai sorpassato Ubi Banca ed è pronta ad allungare il distacco.
Differenze e cambiamenti che non coinvolgono solo l’indice principale il FTSEMib 40, ma che sono ancor più evidenti se ad alcuni titoli finanziari compariamo le bellezze dell’indice generale. Un titolo come Amplifon (+46% da inizio 2018 e +2.500% dal minimo del 2009) ha ormai una capitalizzazione pari a Unipol e Bper messe insieme, oppure Interpump (+4% da inizio 2018 e +1.400% dal minimo del 2009) che per capitalizzazione ha superato Banco Bpm, e che dire di Parmalat e Diasorin che da sole valgono quasi quanto UnipolSai.
Ma a mio avviso il caso ancor più eclatante, se non disarmante, e che fa capire come e quanto sta mutando la nostra geografia economica ancor non certificata dai rapporti di borsa, è la capitalizzazione raggiunta dal titolo della squadra di calcio Juventus che è ormai la metà della storica Banca Monte dei Paschi di Siena.
Sconvolgente!
Senza tener conto del fatto che la maggior parte della capitalizzazione sia di banche che di assicurazioni è stata rafforzata da robuste iniezioni di capitali freschi, mentre per le altre società è frutto di una rivalutazione spontanea, una crescita attirata da un processo di ristrutturazione che la crisi del 2008 ha accelerato. Rinnovamento e innovazione, queste sono le parole d’ordine per il made in Italy.
Una rivoluzione che ormai è diventato un dovere, se non di più, una necessità, una rivoluzione nel listino che diminuendo lo spazio per le antiche assicurazioni e per le banche, aumentandolo per chi porta crescita, ci libererebbe da alcuni aspetti cronici che appesantiscono ormai da anni tutta la barca, basta schiavitù dagli Npl, basta soggezione nei confronti delle società di rating, basta timori nei confronti degli attacchi speculativi, degli umori della politica e del fanatismo pro o contro euro. L'Italia è molto di più, l'Italia è composta da gioielli come Amplifon, Interpump, Brembo, Ima, Brunello Cucinelli, Moncler, Reply, Datalogic, Bio On, BE, e tante altre aziende che sono state capaci di superare ogni burrasca e che nei momenti di difficoltà come quando l'Euro contro Dollaro arrivò a 1,60 penalizzando l'export, hanno saputo attrezzarsi e rigenerarsi.
Aziende mai assoggettate e influenzate dai capricci della politica, perché come ripete spesso Giovanni Tamburi, in questo grande e potente ciclo economico, le aziende sono autonome e indipendenti, sono abbastanza grandi da saper badare a se stesse.
Se queste aziende fossero inserite nell'indice principale, probabilmente ci troveremmo su livelli ben più alti degli attuali, non escludo su possibili record.
L’alternativa, perché c’è anche un alternativa è quella di una ripetizione dei movimenti visti nel 1997/1998 e nel 2005/2006, ovvero la corsa alle scalate e fusioni prima tra banche tricolori e successivamente l'invasione degli istituti stranieri alla conquista dei nostri.
Operazioni che hanno messo il turbo a Piazza Affari e le hanno permesso di vivere un quadriennio da record.
Solo così anche lo storytelling italiano potrà tornare ad interessare ed entusiasmare il mondo, anche i risparmiatori italiani che dopo 10 anni di toro vivono ancora in un'atavica disperazione.
@paninoelistino