Lavoro, entro il 2020 via 20mila bancari. La crisi è appena partita
La mazzata per il settore arriverà dal risiko delle Popolari e dai prossimi piani industriali di UniCredit e Mps. Così il governo corre ai ripari...
di Luca Spoldi
Il mito del posto fisso in banca è ormai un ricordo: secondo quanto dichiarato lo scorso agosto dal segretario generale della Fabi, Lando Maria Sileoni, dal 2013 al 31 marzo 2016 dai gruppi bancari italiani sono usciti 11.988 lavoratori e altri 16.109 erano pronti a uscire entro il 2020 in base agli accordi sindacali siglati sulla base degli ultimi piani industriali in essere, mentre dal 2009 al 2016 sono stati tagliati in tutta Italia 3.972 sportelli (ma le sole Intesa Sanpaolo, UniCredit, Mps, Banco Popolare e Ubi dal 2009 al 2015 hanno chiuso o cedute ben 4.439 filiali). Numeri destinati inevitabilmente a salire con l’ennesimo aggiornamento dei piani industriali di istituti come Mps e UniCredit.
A Siena si parla di 1.600 nuovi esuberi che sarebbero previsti nel nuovo piano che lunedì Marco Morelli sottoporrà al Cda, esuberi da sommare ai 1.400 già previsti dal piano attualmente in essere, mentre UniCredit, che pure sta rivedendo il piano strategico, già ad agosto ha ceduto a Sia le attività di elaborazione dei pagamenti tramite carte, operazione che ha comportato il trasferimento alla stessa Sia di circa 400 dipendenti.
La stessa cessione, problematica, delle quattro good banks rischia di vedere dagli 800 ai 2.000 posti persi sui circa 5 mila attuali, mentre in casa BpVi si parla ormai di oltre 1.000 esuberi (contro i 550 previsti inizialmente dal piano industriale) e per Veneto Banca si stimano circa 1.500 esuberi.
Facendo quattro conti già solo così si profilerebbero ulteriori 4-5 mila esuberi che sommati agli oltre 16 mila già previsti porterebbero il totale a non meno di 21 mila sui circa 300 mila addetti del settore bancario italiano, che dall’esplodere della crisi del 2008 a oggi ha già perso 50 mila posti di lavoro. Non stupisce dunque che il governo nella legge di Stabilità per il 2016 abbia previsto di stanziare 500 milioni di euro nel triennio 2017-2019 (di cui 100 milioni dovrebbero essere spesati già nel 2017, 200 milioni sia nel 2018 sia nel 2019, per poi vedere ulteriori 100 milioni nel 2020 ed eventualmente una “coda” di mano di 100 milioni nel 2021) per accompagnare alla pensione fino a 25.000 bancari.
Un costo del lavoro complessivo tra i più elevati d’Europa, a causa dell’elevata incidenza del cuneo fiscale, un sistema distributivo rimasto ancorato a logiche da anni Novanta, una redditività tra le più modeste d’Europa che l’esigenza di pulizia dei bilanci da 80 miliardi di euro di sofferenze nette e di rafforzamento patrimoniale, unite alla debolezza della ripresa, rischia di far durare ancora diversi anni, una ingerenza continua della politica locale e nazionale: i nodi della “foresta pietrificata” italiana stanno arrivando al pettine.
In un simile clima solo chi dimostrerà di avere conti a posto e di saper ridurre i costi almeno rapidamente quanto incrementare i ricavi (evitando possibilmente di fari troppo coinvolgere in nuovi “salvataggi” di istituti pericolanti) potrà godere di un re-rating duraturo. Per tutti gli altri si dovrà vivere alla giornata, in Borsa e forse non solo.