Economia

La catena del lavoro agricolo in Italia oscilla tra eccellenze e sfruttamento

di Roberta Nutricati

Intervista a Stefania Prandi e Francesca Cicculli, autrici dell'inchiesta sulla filiera produttiva dei kiwi, di cui l'Italia è primo esportatore in Europa

Perché in Italia si parla di caporalato e condizioni di lavoro inumane solo quando fa scalpore il personaggio di turno che ha un ruolo nei palazzi della politica italiana?

In passato ci sono state inchieste giornalistiche importanti che hanno denunciato il sistema di sfruttamento del lavoro in agricoltura. Negli ultimi anni, tuttavia, è sempre più difficile che certi lavori articolati riescano a vedere la luce e ad avere visibilità nei media mainstream per diverse ragioni, soprattutto legate alle logiche del giornalismo italiano. Ci sono varie motivazioni dietro a questo andamento. Le inchieste richiedono fondi e spesso sono realizzate in collaborazione con i freelance che si trovano sempre di più a dovere cercare finanziamenti all’estero (molto difficilmente i giornali italiani hanno budget adeguati per inchieste a lungo termine). Inoltre, sembra che ci sia un’agenda generale che non ritiene di dovere dare troppa importanza ad alcune tematiche, se non in determinati momenti e in certi modi approssimativi. Questa tendenza, per quel che vediamo, non corrisponde al reale interesse di una parte dell’opinione pubblica che continua ad avere a cuore il modo in cui viene prodotto il cibo compriamo e mangiamo.

_inchiesta_il_gusto_amaro_dei_kiwiBraccianti indiani Sikh

Che cosa ne pensate dei certificati Grasp (che, da normativa, sono valutazioni a cui ci si sottopone in modo volontario e non richiedono livelli minimi di conformità obbligatori)?

Le certificazioni non bastano a garantire la tutela dei lavoratori. Occorre, quindi, sia sul lato internazionale sia nazionale, riformare questi sistemi di certificazione volontaria fissando norme più stringenti per le aziende produttrici (dai piccoli produttori alle multinazionali), in modo che le responsabilità dello sfruttamento siano chiare e facilmente rintracciabili. Se gli standard internazionali volontari non sono sufficienti, servono leggi e strumenti che regolarizzino il mercato del lavoro e garantiscano la protezione dei lavoratori. Gli stessi certificatori hanno dichiarato al giornale FruitBook Magazine, che li ha interpellati proprio in seguito alla nostra inchiesta sulla provincia di Latina: lo standard volontario non è concepito “per determinare se un produttore ha condotto un’operazione illegale o se ha commesso un reato. Gli standard volontari si basano sull’idea che un produttore cerchi di rispettare una serie di criteri e principi. Se il produttore viola la legge o collabora intenzionalmente con la criminalità organizzata per ingannare il sistema e fornire informazioni false per imbrogliare la legge, non ci si può aspettare che gli standard volontari sostituiscano la polizia o il sistema giudiziario nel raccogliere prove e condurre indagini. Questo tipo di situazioni (per legge) non rientrano nell’ambito di applicazione dei sistemi di certificazione volontari. Le questioni penali sono riservate alla polizia e al sistema giudiziario”.