Economia
Mediaset/ Contratto, ruolo di Deloitte e "veline": Vivendi, che cosa non torna
La lunga battaglia legale miliardaria con Mediaset su Premum e la scalata al Biscione: ecco che cosa non torna dello storytelling difensivo dei francesi
A detta di chi segue da vicino nelle sale operative della finanza milanese la lunga querelle fra Mediaset e Vivendi, ci sono delle cose che non tornano nello storytelling sulla vicenda Premium (la vecchia pay-tv del Biscione) portato avanti dal gruppo controllato dalla famiglia Bollorè, vicenda per cui la Procura di Milano ha appena ipotizzato i reati di manipolazione del mercato e di ostacolo alla vigilanza per l’ex presidente di Vivendi Vincent Bollorè e per l’amministratore delegato Arnaud de Puyfontaine.
Il primo: a fine luglio 2016 dopo contatti - dicono i magistrati - iniziati nel 2015 per l’acquisto della piattaforma e dopo la sigla a inizio aprile del contratto di esclusiva per l’acquisto del 100% di Premium da integrare poi con la pay-tv di casa Canal+, Vivendi straccia l’intesa vincolante contestando il valore e le prospettive industriali di Premium. “Se mi dici che mi stai vendendo una Ferrari e poi viene fuori che è una Punto, c’è un problema”, aveva sentenziato de Puyfontaine al Financial Times a inizio agosto dello stesso anno, giustificando il dietrofront del proprio gruppo. Ora, fa notare un analista: sei l’amministratore delegato di Vivendi, un colosso mondiale dell’enterteinment che controlla Canal+ e la pay tv fa parte del tuo core business, non capisci quindi che Premium, l’oggetto del tuo acquisto, non era una "Ferrari", per dirla proprio con le parole del Ceo? E poi, si aggiunge, perché allora è stato allora firmato il contratto di acquisto con tanto di scambio azionario fra i due acquirenti?
Il secondo punto: in base all'audit, successivo alla stipula, condotto da Deloitte e sempre da successive analisi sui conti di Mediaset Premium, i francesi di Vivendi hanno spiegato che “le cifre fornite (dal broadcaster italiano, ndr) prima della firma (dell'accordo di cessione) non sono realiste e posavano su una base aumentata artificialmente”. Bollorè e de Puyfontaine fanno riferimento alla veridicità dei dati su abbonamenti e ricavi medi per clienti (Arpu). Il contratto di aprile però, quello stracciato e che ha dato il via alla lunga guerra legale miliardaria, riporta in allegato proprio come parere esperto la certificazione ad hoc di Deloitte Italia, divisione nazionale della società di revisione internazionale, incaricata di verificare la veridicità dei dati su abbonamenti e Arpu, numeri invece incriminati ex post da Parigi.
La due diligence è condotta da Deloitte Italia che fa parte quindi dello stesso gruppo che nel giro di un mese Vivendi, dopo la firma con Cologno, ha incaricato (ma attraverso la branch francese, stavolta) di guardare a fondo sullo stato di salute di Premium. Et voilà, incredibilmente, i colleghi transalpini di Deloitte France, i malevoli sospettano à la carte, hanno invece ribaltato il giudizio mettendo di nuovo nero su bianco che Premium era una piattaforma zoppicante che difficilmente avrebbe raggiunto il break-even nel 2018, contrariamente alle previsioni.
Insomma, svarione degli analisti di Deloitte Italia o di quelli di Deloitte Francia? E poi le due branch non si parlano? E dire che il gruppo in questione è la prima società di revisione al mondo, da quasi 50 miliardi di dollari di ricavi con circa 335 mila dipendenti, un colosso nel settore dell’audit che non esce proprio bene da questa vicenda. l magistrati si sono anche chiesti perché mai Bollorè e de Puyfontaine si siano rivolti per le analisi necessarie all’acquisto di Mediaset Premium prima a Deloitte Italia e poi, in una seconda fase, a Deloitte France (in entrambi i casi il committente è stato Vivendi, non Italia-Premium e Francia-Vivendi).
Da Vivendi hanno giustificato che la prima due diligence, ribattezzata anche light, era una fotografia presente del business (quello che di fatto deve fare una due diligence per giustificare l'acquisto di una società e su cui non a caso è stato firmato un contratto vincolante), mentre la seconda era un’analisi prospettica che portava quindi de Puyfontaine a capire che aveva comprato le chiavi di una vecchia Fiat e non di una “Ferrari”.
Il terzo punto che non torna dello storytelling del colosso francese dell’enterneinment è che il contratto siglato ad aprile del 2016 fra Mediaset e Vivendi prevede che Parigi avrebbe potuto sottrarsi all’adempimento di quanto concordato solo per “dolo o colpa grave”, in dipendenza dall’esito della due diligence che, poi invece stranamente per i francesi non era stata effettuata prima della firma se non in forma light. Ma, e il contratto taglia la testa al toro sgomberando il campo da ogni questione di lana caprina sulla natura della due diligence, “ogni liability eventualmente individuata da Vivendi e dai suoi advisor durante la due diligence non pregiudicherà il completamento del closing nei termini e nelle condizioni stabilite in questo accordo”. Vivendi, quindi, vincolatasi doveva procedere con l’esecuzione. Non ci sono due diligence light che tengano.
Il quarto punto: sabato scorso, dopo l’annuncio della chiusura delle indagini e delle ipotesi di reato per Bollorè e de Puyfontaine, Vivendi ha fatto filtrare con un’Ansa, utilizzando la formula “fonti vicine a”, che il mancato acquisto di Mediaset Premium fu provocato dalle "perdite che la società aveva e che furono rilevate da due diligence di Deloitte” e che il prezzo di vendita della pay-tv di Cologno "era di 250 milioni di euro pari alle perdite della stessa società".
A parte i contenuti diversi delle due analisi, ora messe invece sullo stesso piano (a differenza di quanto fatto invece da Parigi nella burrascosa estate del 2016) e il focus spostato ora, si fa notare, sulle perdite, (allora erano gli abbonamenti e i ricavi medi per cliente gonfiati), a quanto risulta il rosso di Premium a fine 2015 era di 114 milioni (numeri comunicati al mercato) e non di 250 come invece riporta la velina, si dice in gergo giornalistico.
Nella stessa, poi le fonti hanno concluso che dopo il mancato acquisto di Premium (29 luglio 2016) Vivendi decise di entrare nel "capitale di Mediaset per proteggersi dalle richieste di risarcimento”. E anche qui lo storytelling non torna: secondo la Procura, il Consiglio di sorveglianza di Vivendi presieduto da Bollorè “aveva autorizzato il management (senza dire nulla a al Biscione e alla Consob, ndr) a procedere all’acquisto di azioni Mediaset fino al raggiungimento del 24,99%”, una quota di controllo, già in una riunione del “18 febbraio 2016”. Quindi, addirittura, “due mesi prima della sottoscrizione del contratto dell’8 aprile 2016”.
@andreadeugeni