Economia
Arabia Saudita, così cambia il business di Aramco. Via al risiko mondiale
di Luca Spoldi
Ben vengano il turismo e i suoi lussuosi complessi immobiliari, avanti con l’e-commerce altrettanto di lusso di Noon.com, il cui lancio è previsto per il prossimo gennaio, ma la vera rivoluzione industriale a cui l’Arabia Saudita sembra guardare per riuscire a vincere la scommessa di una diversificazione spinta che consenta al paese medio orientale di non dipendere esclusivamente più dalle entrate legate al petrolio è ben altro. Riad intende verticalizzare la sua produzione e discendere lungo la filiera fin giù alla realizzazione e distribuzione di prodotti derivati. Già oggi Aramco, il colosso petrolifero di stato accreditato di quasi 262 miliardi di barili di riserve petrolifere ancora da estrarre (circa 20 volte quelle di Exxon Mobil) che nel 2018 dovrebbe collocare on una piccola quota sul mercato, abbastanza peraltro da far sognare tutte le banche d’affari per quella che potrebbe rivelarsi l’Ipo di maggior valore della storia, ha le sue raffinerie petrolifere, ma resta sostanzialmente un produttore “puro”.
L’idea invece è di diventare un grande gruppo integrato in grado di fare concorrenza a compagnie come Exxon Mobil da un lato, ma anche di sviluppare nuove joint venture e realizzare impianti come quello costato 20 miliardi di dollari di Sadara, la joint-venturetra Aramco e l’americana Dow Chemical. Sadara utilizzerà l’etano raffinato da Aramco per produrre un derivato noto come butadiene, una molecola composta da quattro atomi di carbonio a sua volta utilizzata per produrre elastomeri come il polibutadiene e il neoprene o copolimeri con stirene o con acrilonitrile.
In questo modo il gruppo presieduto dal principe Khalid Al-Falih (che è anche il ministro per il petrolio di Riad) e guidato dal Ceo Amin Nasser vedrà crescere la redditività delle sue produzioni e potrà entrare nel business della produzione di beni di largo consumo dalle gomme da masticare sino ai ricambi per auto, moltiplicando anche i posti di lavoro non direttamente legati al business dell’estrazione petrolifera. Lo stesso Nasser qualche mese fa aveva fatto notare, non a caso, che nel Golfo Persico viene generato appena il 2,5% del reddito mondiale del settore petrolichimico utilizzando meno dell’1% della manodopera mondiale del settore.
Numeri che per un colosso come Aramco appaiono quanto meno una frazione di quello che potrebbe essere, numeri la cui crescita potrebbe risolvere i recenti problemi di deficit che hanno portato il regno saudita a emettere 17,5 miliardi di dollari di bond per rimpinguare le casse pubbliche. Naturalmente nonostante la possibilità di effettuare investimenti massicci e di dar vita a nuove joint- venture, nessun analista è pronto a scommettere che l’Arabia Saudita sia in grado in pochissimi anni di divenire un colosso petrolchimico di peso pari a quello che finora Aramco ha avuto tra i produttori di greggio. Per riuscirci potrebbe essere necessario ricorrere a qualche acquisizione, cosa che potrebbe scatenare l’appetito per il rischio dei grandi investitori mondiali.
Anche perché, in fondo, la strategia che sembra voler perseguire Aramco ricorda molto quella che già da alcuni anni sta seguendo la russa Gazprom, piuttosto che alcune major occidentali come Exxon Mobil e BP o come la messicana Pemex. Finora hanno preferito rimanere player “puri” l’iraniana Nioc, la cinese PetroChina ma anche altre major occidentali come Royal Dutch Shell e Chevron, ma gli spazi per questi ultimi potrebbero ridursi in futuro. Sarà una corsa a chi riuscirà a conquistare per primo il proprio avversario? Il risiko petrolchimico mondiale potrebbe essere alle porte, Descalzi è avvisato.