Economia

Il Salvimaio costa 4 miliardi all'Italia. Lo spread a 230 è la nuova normalità

Luca Spoldi

Spread tra titoli di stato italiani e tedeschi al 2,34%. All'Italia costerà 4 mld che si sommeranno ad almeno un’altra ventina di mld di maggiori oneri e...

Quattro miliardi in più di euro all’anno: a tanto ammonta il costo della risalita, ormai stabile, dello spread tra titoli di stato italiani e tedeschi dall’1,3% a cui si trovava il primo marzo scorso al 2,34% attuale (dopo toccato un picco massimo del 3,09% a fine maggio). Il calcolo è semplice, visto che ogni anno lo stato italiano deve rinnovare circa 400 miliardi di titoli del debito pubblico, ma vale la pena di ricordarlo, visto che qualcuno nel governo sembra più interessato a stigmatizzare le “spese folli” dei precedenti governi come l’acquisto in leasing da Alitalia di un aereo di stato per un investimento di 128 milioni di euro in otto anni, pari dunque a circa 32 milioni l’anno, ossia un centoventicinquesimo della somma che il governo Conte si troverà a dover sborsare in più rispetto ai suoi predecessori.

Quattro miliardi (oltre ai circa 2 miliardi di maggiori oneri che già graveranno sul 2018) che si sommeranno ad almeno un’altra ventina di miliardi di maggiori oneri e spese per cercare di neutralizzare l’aumento dell’Iva (12,5 miliardi circa), coprire spese indifferibili per missioni all’estero (3,5 miliardi), per i rinnovi contrattuali del pubblico impiego (4,5 miliardi) e per rafforzare il Fondo sanitario nazionale. Il tutto per un totale di circa 24-25 miliardi di euro di manovra di bilancio, in un quadro di rallentamento della ripresa in corso che rende difficile pensare che flat tax e reddito di cittadinanza potranno davvero partire dal primo gennaio del prossimo anno.

Siccome però sia la Lega sia M5S continuano a promettere che così sarà il conto finale potrebbe essere ancora più alto e con coperture che restano incerte (non abbiamo 125 aerei di stato da vendere per coprire il maggior costo del debito pubblico) il mercato fa il suo mestiere, aumentando lo spread sui titoli di stato italiani e peggiorando così la situazione. In tutto questo si inserisce anche la decisione della Bce di Mario Draghi, inevitabile per molti versi dopo anni di denaro “a costo zero”, di terminare rapidamente, a fine 2018, il programma di quantitative easing che finora ha fatto da “ombrello” agli emittenti europei come Italia (e in minor misura Spagna e Francia) dando tempo ai governi di fare le necessarie riforme strutturali.

Riforme che, in buona parte, l’Italia ancora non ha fatto o che appaiono a rischio (come la Fornero), dando ulteriore motivo ai mercati per riprezzare (facendo aumentare lo spread) il rischio Italia. Draghi, del resto, è in scadenza di mandato: a novembre del prossimo anno dovrà lasciare la poltrona di presidente della Banca centrale europea e il banchiere più accreditato per succedergli è l’attuale numero uno di Bundesbank, Jens Weidmann. Weidmann negli scorsi anni non ha mancato di ribadire a più riprese come secondo lui il quantitative easing e i tassi sotto zero fossero delle “eresie” ed è facile prevedere che se sarà lui a poter decidere spingerà per fare risalire il più rapidamente possibile il costo del denaro in Europa.

Draghi lo sa bene e per parare le accuse di aver approfittato del suo ruolo per favorire il governo italiano acquistando Btp sul mercato e mantenendo bassi i tassi a breve scadenza (così da favorire un abbassamento anche di quelli a lunga scadenza) probabilmente giocherà d’anticipo alzando di un quarto di punto i tassi a settembre o ottobre, ossia poco prima di fare i bagagli. Da quel momento in poi l’andamento dei tassi in Europa dovrebbe registrare un incremento la cui rapidità dipenderà, oltre che dal “rigore tedesco”, dalla solidità della ripresa in atto.

Ripresa che, purtroppo, nel vecchio continente è ovunque più solida che in Italia e dunque difficilmente ci potrà essere un occhio di riguardo per gli eventuali problemi del governo italiano, se non come maggiore tolleranza di qualche leggero sforamento degli obiettivi fissati in ambito comunitario (la famosa “flessibilità” su cui hanno già fatto affidamento i governi Renzi e Gentiloni). Morale: la ripresa frena, la manovra di bilancio si avvicina, Draghi leva l’ombrello dalla testa di Conte e il braccio di ferro tra la cruda realtà e le promesse elettorali di Lega e M5S si avvicina a una conclusione che rischia di rivelarsi traumatica.

Un mix di elementi che dovrebbe preoccupare non solo i mercati ma anche i contribuenti italiani, che rischiano un brusco risveglio dopo aver a lungo sognato di potersi ritrovare in un paese meno fiscalmente oppressivo dell’attuale. Salvo un “colpo d’ali” che consenta di far quadrare i conti senza troppo pesare sulle tasche degli italiani, compito tutt’altro che facile dopo che la Bce avrà riposto nell’armadio il “bazooka”.