Economia
Università telematiche: un Far West dove l'importante è guadagnare, il resto non conta
Ma sul business pende una spada di Damocle...

Università telematiche: un Far West dove l'importante è guadagnare
“Noi vendiamo teste, non programmi”, sosteneva con lucidità un alto dirigente di Publitalia, ai tempi d’oro. Sembrava cinismo, ma era la realtà: agli investitori tv interessava – oggi interessa lo stesso a chi investe nei social e online – quante persone erano davanti allo schermo televisivo, non la qualità “intrinseca” dei prodotti editoriali.
Quello che sta avvenendo nella tumultuosa cavalcata – ancora una volta tutta italiana, in Europa è un fenomeno pressoché inesistente – verso il boom delle università telematiche. Non è la qualità dei programmi di studio, né tantomeno la ricerca, ma la quantità di studenti iscritti: ancora le teste, vuote o piene poco importa: è la democrazia, bellezza.
Sabino Cassese in una recente intervista al vetriolo lo dice chiaro: sono imprese a fine di profitto. Punto. Dove il diritto allo studio viene sostituito dal diritto al titolo (sempre Cassese al Sole-24 Ore). In dieci anni, in Italia le università telematiche hanno moltiplicato per sei i loro iscritti. Il numero delle immatricolazioni registrate negli atenei digitali è infatti passato da 4.827 a 26.108 dal 2014 al 2024. Si tratta di un aumento che concentra in queste università il 35% dell’incremento complessivo delle matricole registrato in questi anni da tutte le università italiane.
Un business che ha attirato molti investitori stranieri. Tra i leader la società Multiversity, gestita dal fondo inglese di private equity Cvc, proprietaria di tre università telematiche (Pegaso, San Raffaele e Mercatorum). Ma se in questo mercato in ebollizione trovi personaggi come Stefano Bandecchi – infilzato dalla stampa e dalla tv del buon senso, cioè di sinistra, per le sue intemperanze verbali e non solo – non ti stupisci. Non ti aspetti invece che il presidente di Multiversity sia Luciano Violante (ex magistrato e politico di spicco nella recente storia Ds-Pd), accompagnato nell’advisory board da alcuni dei più lucidi frutti dell’intellighenzia di sinistra: da Maria Chiara Carrozza, presidente del Cnr, già deputata Pd e già ministro dell’Istruzione (con Enrico Letta) a Marta Dassù, ex viceministro degli Affari Esteri (nei Governi Monti e Letta), da Giovanni Salvi, già Procuratore generale della Cassazione ed esponente di Magistratura democratica (oltre che fratello del deputato Pd Cesare Salvi) a Monica Maggioni (presidente Rai durante i Governi Renzi e Gentiloni, e direttore Tg1, durante il Governo Draghi).
Di fronte a tanti bei nomi, in un territorio che somiglia più a un Far West, Antonio Di Pietro avrebbe detto: “Che c’azzeccano?”. Domanda più che lecita, che riceverebbe sempre una risposta “dipietresca”: “Seguite il denaro”. E il business è consistente, se Danilo Iervolino tre anni e mezzo fa ha ceduto l’ultimo 50% della sua creatura (l’università Pegaso) a 1,3 miliardi di dollari proprio agli inglesi di Cvc.
Ma, a parte Multiversity, si tratta di Fat West. In Italia esistono 11 università telematiche che rilasciano titoli equivalenti a quelli rilasciati dalle università tradizionali (88 in totale, di cui 68 statali). La Crui, la conferenza dei rettori, non le rappresenta. Anche perché i parametri richiesti dagli Atenei tradizionali nulla hanno a che vedere con quello che accade nelle Università telematiche. A esempio nel rapporto studenti-docenti: se negli atenei tradizionali si ha un docente per ogni 28/29 studenti, nelle telematiche questo rapporto schizza a 384,8, più che raddoppiato rispetto al sempre poco dignitoso 152,2 di dieci anni fa.
Sul business pende una spada di Damocle. Entro quest’anno è richiesto l’adeguamento degli standard anche agli atenei online, pena il ritiro della licenza. Nel Paese dei legulei e dell’incertezza normativa ci sono pendenti ricorsi al Tar e guerre di pareri per cercare di far slittare la scadenza, o per cambiare la norma. E’ il tempo delle lobby. Un’attenta ricostruzione giornalistica del Foglio ha dipinto proprio Violante come il condottiero di questa battaglia demagogica più che democratica.
E’ difficile immaginare che i figli e i nipoti degli altisonanti nomi nell’advisory board di Multiversity possano essere visti tra gli studenti di un ateneo online. Certi nomi – e certi cognomi – inseguono Oxford o Yale, il Mit o Cambridge. Ma se i denari vengono da altre parti la morale non si mette in imbarazzo: si può essere servitori di due padroni, alla faccia di Arlecchino.
Una prova di forza di questo lobbismo ben radicato nell’Italia che conta (quella solita del cuore a sinistra e del portafoglio a destra) si è visto nella firma di un protocollo d’intesa siglato dai tre atenei (curati da Violante & co.) con il Ministero della Funzione Pubblica per “promuovere la collaborazione e lo sviluppo di iniziative congiunte nel campo dell’istruzione e della Pubblica amministrazione sostenendo la formazione dei dipendenti pubblici e la digitalizzazione del settore”. Insomma, mentre i dirigenti pubblici francesi si formano all’Ena, la nostra Pubblica Amministrazione si accoccola davanti a un Pc per strappare uno straccio di laurea, che abilita a qualche concorso e a qualche titolo dirigenziale in più. La convenzione prevede agevolazioni economiche per tutti i dipendenti pubblici che si iscrivono a un corso di laurea o a un master di una delle università del gruppo, fino a una riduzione della tassa di iscrizione del 50 per cento.
Il “povero” Bandecchi aveva richiesto, anni fa, al tempo del Governo Draghi, la possibilità di stipulare una simile convenzione. Non aveva ricevuto risposta: per la Funzione Pubblica di allora (ministro Renato Brunetta) le università telematiche non potevano essere incluse tra quelle “consigliate” ai dipendenti pubblici per motivi legati a standard qualitativi. Ora il Governo Meloni preferisce fare l’occhiolino a una sinistra conciliante e affarista. Ma contraddistinta da modi urbani e priva di turpiloquio. Dottori si nasce o si diventa?