Economia

Vivendi, paura di finire come Parmalat. La cassa fa gola a molti. Rumors

Ecco uno dei motivi dell'affondo di Vincent Bollorè su Mediaset

di Luca Spoldi
e Andrea Deugeni

Per quale motivo Vivendi è sempre più attiva, anche a costo di “urtare” non poco la sensibilità di (ex) partner come la famiglia Berlusconi (con Piersilvio e Marina Berlusconi che sembrano i più colpiti dallo scarso garbo usato da Vincent Bolloré nella vicenda Mediaset)?

Al di là del carattere del suo patron, il finanziere bretone Vincent Bolloré, Vivendi secondo varie opinioni raccolte in ambienti finanziari da Affaritaliani.it, non ha molte alternative. Con ricavi che dai 10,7 miliardi del 2015 dovrebbero salire oltre i 12,1 miliardi nel 2018, ancora 2,6 miliardi di liquidità da investire dopo i disinvestimenti del 2015 e un free cash flow che potrebbe arrivare entro l’anno prossimo a superare il miliardo di euro l’anno secondo le stime di Credit Suisse, o la società può utilizzare l’ingente cassa per fare ulteriori acquisizioni, dopo i circa 3,5 miliardi già spesi nel biennio 2015- 2016 (cui si sono sommati oltre 2,2 miliardi di riacquisto azioni), e per pagare robusti dividendi (2,7 miliardi distribuiti nel 2015, altri 2,5 miliardi nell’anno appena concluso, oltre 500 milioni previsti per quest’anno e il prossimo).

Altrimenti Vivendi stessa potrebbe fare la fine di Parmalat. Ovvero diventare preda di qualche concorrente o fondo di private equity pronto a “estrarre valore” dal gruppo francese cedendo alcune delle sue partecipazioni e utilizzando la cassa per rimborsare eventuali debiti con cui finanziare una scalata ostile. Scalata che data l’attuale capitalizzazione di mercato (23,3 miliardi di euro) rischierebbe di costare fino a una dozzina di miliardi, non proprio bruscolini ma comunque alla portata di concorrenti come Rupert Murdoch, già in passato interessato a Mediaset Premium ed al momento impegnato nel riorganizzare il proprio impero con l’acquisizione da 11,7 miliardi di sterline (13,5 miliardi di euro) di Sky da parte di Twenty-First Century Fox, colosso Usa che in borsa vale poco meno di 54,5 miliardi di dollari.

Ugualmente in grado di sferrare un assalto e forse con una maggiore motivazione industriale appare il gruppo Netflix, che in borsa capitalizza 55,7 miliardi di dollari e che coi suoi servizi di video streaming via web è lo sfidante più pericoloso per i “vecchi” gruppi media, ma che per ora non sfonda in Europa, dove la crescita di abbonati appare anzi in rallentamento, in particolare nei paesi considerati già “maturi” per la televisione a pagamento come la Gran Bretagna e i paesi scandinavi.

Insomma: in un settore sempre più competitivo come quello televisivo, chi si ferma è destinato prima o poi a finire preda e Vincent Bolloré non sembra avere alcuna intenzione di recitare tale parte, anche a costo di collezionare una serie di partecipazioni importanti (il 25% del produttore di videogiochi Ubisoft, il 24,9% dell’ex monopolista telefonico italiano Telecom Italia, il 28,8% di Mediaset) ma che per ora gli analisti giudicano difficilmente integrabili e scarsamente in grado di generare significative sinergie con gli asset “core” Canal+, Universal Music Group e Gameloft.