Economia

Vivendi, la "campagna d'Italia" un vero disastro: tra Tim e Mediaset persi oltre 4 miliardi di euro

La strategia errata del gruppo di Bollorè: l'oro della rete sono i dati, non i contenuti. L'analisi

di Maddalena Camera

Vivendi, la "campagna d'Italia" un vero disastro

Vivendi, il gruppo di Vincent Bollorè, dopo la vendita sul mercato del 5% di Tim (di cui però detiene ancora oltre il 18%) si appresta dunque a ritirarsi dall'Italia. Ma qual era il progetto che aveva spinto i francesi ad acquisire la quota di maggioranza dell'ex-monopolista delle tlc italiano?

Vivendi nel 2014 controllava Gvt, un operatore fisso brasiliano conteso tra Telecom Italia e Telefonica che era però anche il socio di maggioranza di Telco (che aveva il controllo di Telecom). La questione fu annosa e controversa ma alla fine la spuntò Telefonica che cedette il suo pacchetto di azioni Telecom a Vivendi, oltre a un congruo conguaglio cash, in cambio di Gvt dato che in Brasile la società iberica controllava già il maggior operatore mobile del paese.

E così nel 2015 Vivendi entrò ufficialmente nel capitale di Telecom con una quota di circa il 15% che poi venne incrementata con acquisti in Borsa fino al massimo previsto del 24,9%. Con tale operazione, Vivendi ottenne tre consiglieri nei comitati di gestione di Telecom e un presidente esecutivo Arnaud de Puyfontaine, che è ancora presidente del consiglio di gestione di Vivendi.

L'intento di Vivendi era già chiaro nel comunicato stampa redatto per annunciare l'operazione con Telefonica: "L'investimento di capitale di Vivendi in una grande società italiana si inserisce nella strategia sviluppata dal Gruppo, che si afferma in un Paese con cui condivide la stessa cultura e le stesse radici latine e rappresenta l'opportunità per Vivendi di essere presente e di espandersi in un mercato con significative prospettive di crescita e una fortissima propensione ai contenuti di qualità"

All'epoca dunque, ma parliamo solo di dieci anni fa, i contenuti parevano ancora l'oro della rete e dunque una società capace di fondere queste due realtà (connessione a Internet con film, sport e serie tv) sembrava un'ottima idea, nonostante esempi negativi come Aol e Cnn negli Stati Uniti. In Italia da tempo si parlava della possibile convergenza tra Tim e Mediaset, la tv generalista della famiglia Berlusconi.

Così Vivendi nell'aprile del 2016 acquista il 100% delle quote della tv a pagamento di Mediaset, Premium. L'accordo prevedeva anche uno scambio di azioni per entrambi i gruppi (Mediaset e Vivendi) portandoli a detenere il 3,5% l'uno dell'altro. Ma le cose non vanno come da programma. Il patron di Mediaset Silvio Berlusconi ha un malore e viene ricoverato in ospedale. Bollorè decide che è il momento di agire: non acquista Premium ma quote in Mediaset fino a detenere poco sotto al 30%.

Berlusconi però torna in salute e Bollorè scopre che tutta la famiglia non vuole vendere Mediaset. I figli Pier Silvio e Marina restano saldamente al timone della tv e della holding Fininvest che controlla la società del Biscione con il 50% che poi ha spostato la sede in Olanda diventando Mfe. Ma questa è storia recente.

Prima di questo c'è stata una lunga battaglia tra Vivendi e Mediaset partita nel 2016 e chiusa solo tre anni fa con un accordo. Certo il risultato è che Vivendi, primo azionista di Tim per 10 anni, ha perseguito una strategia perdente. Nel frattempo, infatti molto è cambiato: i contenuti non sono la killer application per vendere abbonamenti Internet. L'oro della rete sono i dati e tutto quello che serve per permettere alle aziende di svolgere al meglio il proprio business.

Applicazioni cloud, server, capacità di stoccaggio dei dati e servizi a valore aggiunto ora potenziati dall'intelligenza artificiale. Le telco, non solo Tim che indubbiamente fatica più di altri, in questi campi restano indietro. Il business dei data center è in mano ai soliti noti, i cosiddetti Ott (Over the top Amazon, Microsoft, Google) che usano le reti di tlc per i loro business ma alle telco pochissimo e non vogliono contribuire ai cospicui investimenti che di cui le reti hanno bisogno.

Mentre nel settore consumer l'Antitrust ha molto favorito i consumatori calmierando le tariffe di abbonamento alla telefonia mobile. Per Vivendi il conto dell'avventura italiana comunque è salato: le perdite per Tim dovrebbero essere intorno ai 3,5 miliardi di euro mentre per Mediaset invece si fermano a 500 milioni.

Ora Tim si appresta a una nuova vita (e nuovi soci di maggioranza) dopo lo scorporo della rete di accesso il 1 luglio scorso. In pole position c'è Poste Italiane, che già controlla quasi il 10%. E dunque il governo che controlla Poste al 65% con il Mef e Cdp.

Sembra incredibile ma il business delle società di tlc, che fanno correre l'economia mondiale, non è riuscito a decollare. Telecom nel 1997 fatturava circa 23 miliardi di euro e aveva un debito contenuto, circa 8 miliardi simile dunque a quello attuale che è pari a 7,3 miliardi, ottenuto vendendo il gioiello di famiglia ossia la rete di accesso.

Nel 2016 il fatturato era di 19 miliardi di euro con debito a 27 miliardi (e valore dell'azione era a circa 1 euro). Nel 2023 il fatturato era sceso (nonostante la crescita esponenziale del traffico dati e degli abbonati alla telefonia mobile inesistenti nel 1997 e anche del fatturato della controllata brasiliana, Tim Brasil) a 16 miliardi con 25 di debito e valore dell'azione simile all'attuale, intorno a 0,28 euro per azione.

Il 5 marzo scorso, il cda ha approvato la relazione finanziaria 2024 registrando il ritorno all’utile nel secondo semestre dell’anno, il primo dopo il closing della cessione della rete, con un risultato positivo per 139 milioni di euro. Un topolino rispetto al 1997 quando l'utile era intorno ai 3 miliardi di euro.