Spettacoli

Achille Lauro/Gucci, operazione di marketing. Altro che S. Francesco...

Intervista ad Alberto Contri, docente dello IULM di Milano

I travestimenti di Achille Lauro al Festival di Sanremo hanno consentito al cantante di ottenere milioni di contatti sui più diversi social. Il fatto che i costumi fossero stati preparati dalla Maison di moda Gucci ha fatto nascere vivaci discussioni tra giornalisti, docenti ed esperti di comunicazione: c’è chi è giunto a parlare di brillante esempio di marketing culturale e chi l’ha considerato un caso di scuola di troppo facile provocazione. Così abbiamo chiesto il parere di Alberto Contri, una carriera passata nella più importanti multinazionali della pubblicità, per poi dedicarsi all’insegnamento in università come La Sapienza di Roma, il S.Raffaele di Milano, e attualmente presso la IULM di Milano, che gli ha conferito la Laurea H.C. in Relazioni Pubbliche delle Imprese e delle Istituzioni. 

Professor Contri, sappiamo che lei non concorda sul fatto che l’operazione Gucci rappresenti un caso di marketing culturale. Ci vuole spiegare?

Cultura è una parola troppo importante per accostarla a iniziative furbesche come quella di Lauro/Gucci. Se proprio vogliamo, possiamo parlare al massimo di operazione di marketing non convenzionale, fatta inoltre alle spalle della Rai eludendo quelli che sarebbero stati normali costi promozionali. La stessa vecchia tecnica di Toscani, che con una foto provocatoria riusciva ad ottenere fiumi di articoli e interviste. Non ci vedo nulla di particolarmente innovativo, se non l’applicazione di un assai vetusto principio in uso fin dagli albori della pubblicità: “Che se ne parli bene, che se ne parli male, basta che se ne parli”. E sono anche sorpreso che stimati colleghi ne abbiano parlato come se si trattasse di un esempio di brillante innovazione nella promozione di un brand.


Già: come mai è in disaccordo con  loro?

Tani anni di esperienza sul campo lavorando per i più diversi brand, confermano che non esistono tecniche di comunicazione brillanti in sé. Bisogna sempre domandarsi quali sono gli obiettivi che si vogliono raggiungere, qual è la coerenza tra la forma e i contenuti scelti con i valori della marca da promuovere. Ora, se in questo caso il brand è Lauro, i risultati di awareness (conoscenza, popolarità) sono stati certamente raggiunti. Vorrei però far notare che le maggiori interazioni sui social sono state quelle per lui ed Elettra Lamborghini. Il che la dice lunga sulle capacità critiche del popolo del web. 
Ancora più dubbio è il valore sociale dell’operazione, visto che Lauro si vanta di essere un’icona trash che ha avuto l’impudenza di affermare “Io scrivo solo ed esclusivamente sotto l’effetto di stupefacenti…la droga è assolutamente fondamentale per la nostra creatività e l’ispirazione musicale”. Né valore culturale né valore sociale, quindi. Al massimo possiamo parlare di subcultura, come si capisce chiaramente dai videoclip del cantante e dai commenti dei fan: “uno che sale sul palco dell’Ariston e si spoglia di tutto: vestiti, convenzioni, tabù, giudizi, pregiudizi e distrugge in un gesto secoli di machismo e maschilismo tossico, beh, uno così lo adori e basta.” Che pena: relativismo etico e principi come parità, diversità, diritti civili mal digeriti e peggio rivomitati. Qui di civile non c’è proprio niente, solo una dilagante subcultura che sta purtroppo interessando giornali, tv, e grandi firme.

Allude forse a Aldo Cazzullo la cui intervista a Lauro ha occupato ben due pagine del Corriere della Sera?

Certo. Perché est modus in rebus. Sull’improbabile tentativo di ridare a Lauro una dignità culturale lascio decidere ai lettori. Da esperto di comunicazione trovo che nelle priorità e nell’impaginazione di un quotidiano di grande tradizione, due intere pagine dedicate a Lauro e ai suoi costumi hanno come unica spiegazione il fatto che Gucci è un grande investitore pubblicitario. Ma honni soit qui mal y pense… 
Quanto al brand Gucci, c’è da chiedersi quali erano i suoi obiettivi. Farsi conoscere dagli squattrinati frequentatori dei centri sociali, che mai spenderebbero denaro - che già serve loro per ben altro - in costosi oggetti di moda? Piantare bandierine sul territorio della spregiudicatezza e della rottura degli schemi, presidiato da anni e con un lavoro molto più costante e meno estemporaneo da un brand come Diesel, o da altre Maison della moda come Dolce e Gabbana? Lanciare l’ennesimo messaggi anti-discriminazione omosessuale, tema oramai fin troppo sfruttato? Tra l’altro, a Sanremo l’approccio gay alla vita era assai ben rappresentato. E quindi? Vedo soprattutto rumore, rumore, rumore.

In diversi hanno lodato i richiami artistici dei costumi e quelli all’abbandono della ricchezza di S.Francesco…

Ma per favore…Senza dubbio lo scandalo visivo c’è stato, ma è stato solo un pretesto per far parlare di un modesto cantante, di una modesta canzone, e – come si vede - della Maison Gucci. Il fatto che ci siano cascati in così tanti, la dice lunga sul livello culturale del paese e dei media che lo rappresentano. 
Non dovremmo dimenticare che siamo nel contesto di un festival di canzoni, dove molti degli artisti presenti possono essere senz’altro definiti dei “phoney”, un termine anglosassone che indica qualcuno che cerca di imitare esempi famosi. Solo che nel nostro caso non vediamo imitatori di Frank Sinatra, Michael Jackson o rocker e rapper più moderni, bensì di altri phoney a loro volta molto modesti. Sono convinto che di tutti questi rapper e trapper non resterà nessuna traccia, anche perché obbligati inevitabilmente ad assomigliarsi per motivi di tecnica musicale. Ecco perché cercano di sfondare in altro modo. Ma se lo fanno pensando di essere originali citando il look del primo David Bowie, da lui poi abbandonato per concentrarsi proprio sul valore della sua proposta musicale, siamo al provincialismo più spinto, che potremmo dire “de noantri” tanto è penosamente in ritardo. In proposito, mi colpisce pure il fatto che i ragazzi di oggi non conoscano nemmeno la storia del rock e del pop, figuriamoci la storia dell’arte. Così un po’ di abile artigianato (parlo dei costumi ispirati a figure storiche) mescolato ai sempre più sfruttati temi LGBT (che se osi dire qualcosa ti fucilano sul posto), sono sufficienti a far parlare di brillante operazione culturale? 

Un giudizio severo…

Mah, credo che sia venuto il momento di ricostruire un po’ di argini verso le alluvioni di relativismo etico e di politicamente corretto che stanno intossicando tutto. Promuovere disvalori trash nella manifestazione canora dell’anno del Servizio Pubblico è forse un esempio di Responsabilità Sociale, di cui oggi tutte le imprese si riempiono la bocca?  I milioni di contatti per Lauro cosa significano alla fine? Abbiamo visto che ce ne sono stati quasi altrettanti per le abbondanti forme svestite di Elettra Laborghini, le cui stonature l’hanno poi relegata tra gli ultimi posti dalle giurie, dimostrando inoltre che c’è ancora un giudice a Berlino… 

Alla fine siamo sempre lì: al “Che se ne parli bene, che se ne parli male, basta che se ne parli?”. Un aforisma valido “al temp de Carlo Codega”, si dice ancora oggi a Milano. Vuol dire “ai tempi di Carlo V”, quando i nobili e i conservatori portavano ancora il codino. Altro che brillante e innovativo esempio di marketing culturale.