Esteri

Elezioni al tempo del coronavirus. Guinea: blitz Condé. Guyana-caos. Vanuatu in attesa. E il Mali...

Lorenzo Lamperti

La pandemia non ferma (ovunque le urne). Condé fa passare le sue riforme costituzionali in Guinea, scontri etnici in Guyana, attesa a Vanuatu. Ora tocca al Mali

Il coronavirus ha di fatto bloccato una buona parte del mondo. Ma c'è anche dove si continua a votare. Già, elezioni ai tempi del coronavirus. E nessuna di queste, per un motivo o per l'altro, sembra andare nel verso giusto. Ci sono sospetti di brogli, come in Guyana, proteste di massa, come in Guinea, la morte di un membro della commissione elettorale, come a Vanuatu. E poi c'è il Mali, che va al voto domenica 29 marzo tra paure e tensioni. Proviamo a fare una piccola panoramica di quanto sta accadendo in questi paesi che provano a mandare avanti la loro vita politica durante la pandemia Covid-19, con qualcuno che prova anche ad approfittarne per colpi di mano.

ELEZIONI GUYANA: ACCUSE DI FRODE E RICONTEGGIO SOSPESO, IN PALIO IL PETROLIO

LP 454650Granger

E' passato quasi un mese dal voto del piccolo paese sudamericano. L'ex colonia olandese prima e britannica poi è andata alle urne il 2 marzo per il voto forse più importante della sua storia. La Guyana è una repubblica presidenziale, nella quale il presidente è direttamente espresso dal partito vincitore alle elezioni legislative. I risultati definitivi del voto non sono mai stati annunciati anche e se entrambi i candidati, il presidente uscente David A. Granger e il rivale Irfaan Ali, hanno dichiarato vittoria. Gli osservatori internazionali hanno denunciato diversi tentativi di frode, consigliando il riconteggio totale delle schede, che però è al momento bloccato dal tribunale supremo.

Il voto è storicamente diviso su base etnica, con i guyanesi di discendenza africana da una parte e quelli di discendenza indiana (arrivati nel paese durante i tempi dell'impero britannico) dall'altra. La maggioranza è sempre stata quelle indiana, rappresentata da Ali, almeno fino al 2015, quando il People's Progressive Party è passato all'opposizione dopo 23 anni al potere. Granger, presidente uscente, ha tenuto in piedi un governo retto su un solo voto per oltre tre anni, alla guida della Partnershipo for National Unity-Alliance for Change. Scenario ribaltato a fine 2018, con il passaggio di un membro della maggioranza all'opposizione. Nonostante le proteste Irfaan Ali, Granger ha convocato le elezioni solo per questo inizio di marzo 2020.

Il voto controverso può alimentare tensioni etniche a lungo bollenti tra due gruppi, quello afro-guyanese del paese e quelli di origine indiana, ognuno dei quali è diventato sospettoso che l'altro stia cercando il controllo sui ricavi della produzione di petrolio, che potrebbe aumentare di molto nei prossimi anni dopo la recente scoperta di nuovi giacimenti. Risorse che fanno gola a tutti, tanto che diverse potenze globali le hanno messe nel mirino. Per questo il risultato del voto è così importante, e nessuno vuole lasciare campo libero all'avversario. Il rischio è che un paese già poverissimo non riesce a utilizzare le sue stesse risorse per rilanciarsi ma reschi invischiato in un conflitto interno. Si attende, speranzosi, il riconteggio, ma ormai il pericolo è che nessuno riconosca la validità del voto.

ELEZIONI E REFERENDUM GUINEA: SCONTRI E PROTESTE CONTRO IL COLPO DI MANO DI ALPHA CONDE'

LP 3591227Alpha Condé con Mattarella nel 2016

Domenica 22 marzo si è votato anche in Guinea per le elezioni parlamentari e per il referendum costituzionale. Un appuntamento al quale si è arrivati dopo diversi rinvii e che ha scatenato una tensione fortissima nello stato dell'Africa occidentale. Tutta l'attenzione era concentrata sul progetto di riforma costituzionale, che ha di fatto acceso luce verde alla nuova candidatura di Alpha Condé alla nuova candidatura per le presidenziali in programma il prossimo ottobre. I risultati sono stati annunciati venerdì sera, a cinque giorni dal voto. Secondo la Commissione elettorale le riforme contenute nella nuova costituzione sono state approvate dal referendum con il 91,6% dei voti a fronte di un 8,4% di no e il tasso di partecipazione è stato del 61,2%. 

Ma durante il voto si sono verificati diversi proteste e scontri, con l'opposizione che ha di fatto boicottato il voto. Condé è al potere dell'ex colonia francese dal 2010, vale a dire dalle prime elezioni libere dopo la fine del regime militare di Ahmed Sekou Touré, morto nel 2008. E potrebbe restarci ancora per un terzo mandato dopo le presidenziali del prossimo dicembre. La Francia ha disconosciuto i risultati di queste votazioni, tanto che tra Guinea e Parigi è scoppiato uno scontro diplomatico. Seguono con attenzione le grandi potenze, compresi Cina e Stati Uniti, visto che la Guinea è ricca di risorse naturali, anche se una vasta parte della sua popolazione vive sotto la soglia di povertà.

ELEZIONI VANUATU: LA MORTE DEL PRESIDENTE DELLA COMMISSIONE ELETTORALE RALLENTA IL CONTEGGIO

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Il 19 marzo è andato al voto anche Vanuatu, arcipelago melanesiano nel Pacifico, a tre ore di volo dall'Australia. Ex dominio anglo-francese, Vanuatu è uno dei paesi più piccoli al mondo con meno di 300 mila abitanti. La sua storia politica è fatta più di divisioni che di alleanze con una lunga trafila di ribaltoni e cambi di schieramento. Nel 2015, 14 membri del parlamento, incluso l'allora primo ministro, sono stati condannati per corruzione. Dopo lo scandalo il potere è stato preso da Charlo Salwai, premier uscente in un parlamento frazionato in ben 17 partiti, dove però è dal 2008 che non trova posto nemmeno una donna.

Il voto arriva in un momento chiave per Vanuatu, che nel 2020 festeggia i 40 anni di indipendenza e ha in programma di ospitare il prossimo forum dei leader delle isole del Pacifico ad agosto. Il voto di dieci giorni fa restituirà ancora una volta un panorama complesso. Non a caso, subito dopo la chiusura delle urne sono partite le trattative tra i diversi partiti per cercare alleanze o distruggerne altre, anche se i risultati ufficiali ancora non sono arrivati. Già, perché il presidente della commissione elettorale Martin Tete è morto all'improvviso, subito dopo il voto, e bisogna trovare un sostituto prima di annunciare l'esito delle urne.

ELEZIONI IN MALI, STATO CHIAVE DEL SAHEL TRA COVID-19 E UN CANDIDATO RAPITO

maliKeita Ibrahim Boubacar

Il coronavirus si sta espandendo anche in Mali, con undici casi confermati, ma il presidente Keita Ibrahim Boubacar ha confermato che le elezioni legislative si terranno regolarmente domenica 29 marzo, nonostante il leader del partito di opposizione sia stato rapito. L’annuncio è avvenuto con un discorso alla nazione tenuto la sera del 25 marzo, in cui il presidente ha anche parlato dell'introduzione di misure restrittive per contrastare il contagio del virus: un coprifuoco dalle 21 alle 5 del mattino, e la chiusura delle frontiere. Tuttavia, i mercati restano aperti e i trasporti pubblici in funzione.

Ma l’emergenza sanitaria non è l’unico problema che si trova ad affrontare il Paese: il rischio di un’insurrezione jihadista è concreto, la tensione per un voto legislativo più volte rimandato è palpabile e, in più, il leader dell’opposizione Soumalia Cisse, capo del partito Unione per la Repubblica e la democrazia (Urd), è stato rapito, come confermato dal governo. Ex ministro delle Finanze e aspirante presidente, Cisse era scomparso il 25 marzo, in circostanze non chiare mentre teneva dei comizi elettorali nella regione centrale di Niafunke, dove sono attivi miliziani jihadisti. Il suo partito aveva diffuso un comunicato, spiegando che Cisse e la sua squadra non si erano presentati a un appuntamento e il politico non era raggiungibile telefonicamente.

Il Mali vive nell’instabilità dal 21 marzo 2012, quando un colpo di Stato ha deposto il presidente Amadou Toumani Toure, consentendo ai tuareg di conquistare il nord del paese e ai gruppi islamici, alcuni dei quali legati ad al Qaeda, di estendere il loro raggio d’azione. Le truppe francesi erano intervenute nel 2013, impedendo ai gruppi jihadisti di raggiungere la capitale, Bamako, e nel 2015 il governo centrale e i ribelli tuareg erano giunti a un accordo di pace. Ancora oggi intere zone nel nord del paese non risultano sotto il controllo delle forze statali e internazionali.