Esteri

Coronavirus:le democrazie occidentali vacillano.Ma non esiste un modello unico

Lorenzo Lamperti

L'Italia prova a seguire Pechino ma la differenza (con tutto il Far East) è culturale oltre che politica

Il coronavirus sta colpendo il mondo a tutti i livelli: sanitario, economico, sociale, culturale. E, ovviamente, anche politico. Quando l'emergenza si sarà placata potrebbe lasciare posto a un mondo diverso, persino più cambiato che dopo la crisi finanziaria del 2008. E c'è chi inizia a credere che, tra le tante vittime del COVID-19, possa esserci anche il sistema democratico. La Cina, origine dell'epidemia, sembra essere riuscita a uscire per prima dalla tempesta grazie a misure draconiane che in un sistema diverso e meno autoritario sarebbero state difficili da prendere. L'Italia ci sta provando, avendo però in mano strumenti diversi da quelli dell'esempio originario.

Non solo: ammesso e non concesso che quello cinese sia il modello migliore di contenimento dei contagi, ci si sarebbe dovuti muovere in quella direzione con maggiore rapidità e senza i tentennamenti a cui abbiamo assistito nelle ultime settimane. Eppure ci sono anche altri esempi che sembrano portare a risultati positivi, tutti provenienti da sistemi più o meno democratici. Tutti esempi, significativamente, provenienti dall'Asia orientale. Elemento che sembra suggerire che, oltre e forse più della componente politica, a fare la differenza c'è anche un elemento culturale. I cittadini di Corea del Sud, Taiwan o Singapore, oltre a quelli della Cina, sembrano più consapevoli dei rischi e dunque più propensi a seguire le indicazioni e le precauzioni fornite da governi che sono altrettanto maggiormente preparati ad affrontare un'emergenza sanitaria rispetto a quelli occidentali.

In questi giorni in molti, sia politici che economisti, editori o scienziati, hanno lodato il modello cinese, chiedendo al governo italiano di seguirne l'esempio. Piano piano, l'esecutivo Conte lo ha fatto. Prima l'istituzione delle due zone rosse nell'area dei primi due focolai, poi la creazione di un'area arancione composta da Lombardia e 11 altre province, infine l'estensione dell'"area protetta" a tutto il territorio nazionale e la chiusura di tutti gli esercizi commerciali, esclusi quelli che vendono generi alimentari e farmaci.

Misure senza precedenti in tutta Europa dai tempi della Seconda Guerra Mondiale e alle quali si è arrivati però in maniera graduale e non netta. Gli errori di comunicazione hanno portato prima a una sottovalutazione generale, con il focus spostato subito dall'emergenza sanitaria a quella economica, e poi a un panico improvviso, in particolare dopo la diffusione di una bozza del decreto che avrebbe poi impedito l'ingresso e uscita dalle zone arancioni.

Al di là di qualche improvvisazione e impreparazione, il governo ha ora adottato tutte le misure di cui aveva potere per provare a replicare quanto fatto dal governo cinese. Un'azione certamente non perfetta, come ha ammesso Pechino stessa. Tra ritardi, omissioni e scarsa comunicazione tra periferie e centro. Ma quando si è deciso di fronteggiare l'emergenza si è fatto in fretta. Ma ci sono delle differenze interne impossibili da azzerare. Il modello di controllo cinese si basa su due pilastri: la tecnologia e il coinvolgimento del capitale umano. Robot, droni, intelligenza artificiale da una parte, polizia, comitati di quartiere e building manager dall'altro. Un incrocio di chip e movimentazione umana che ha reso quasi imperforabile il severo sistema di quarantena a cui la Cina, e non solo la provincia dello Hubei, è stata sottoposta.

L'Italia non ha disposizione l'apparato tecnologico e umano che ha a disposizione la Cina. Con un'ultima, grande differenza: l'Italia ha un sistema democratico multipartitico che si basa (o dovrebbe basarsi) su concertazione e confronto. Il governo cinese ha potuto agire in maniera drastica per contenere la diffusione del virus, anche a costo di un alto prezzo economico e sociale. Un costo che riverbera nelle proteste di alcuni cittadini di Wuhan durante la visita della vicepremier Sun Chunlan (e che hanno trovato inusitatamente spazio sui media statali al contrario di altre critiche al governo pubblicate online). Quello italiano ha dovuto ascoltare voci diverse e spesso contrastanti. Per questo le misure italiane si fondano molto di meno su una struttura fisica consolidata e molto di più sulla responsabilità personale, tanto che per muoversi fuori e all'interno del proprio territorio basta un'autocertificazione. L'applicazione di una zona rossa su tutta Italia, o anche solo su tutta la Lombardia, nelle modalità in cui è stata applicata a Codogno o a Vo' Euganeo (portando comunque a un azzeramento di nuovi contagi nel giro di tre settimane) è praticamente impossibile.

Preannunciando le ultime misure prese dal governo, il viceministro allo Sviluppo Economico Stefano Buffagni ha dichiarato: "Se un popolo non è in grado di essere responsabile servono misure drastiche e forti per tutelare le vite umane". Ecco qui allora l'aspetto personale: l'accettazione e la responsabilità dei singoli cittadini. Caratteristiche più difficili da ottenere non solo in Italia ma in tutto il mondo occidentale, per la (fortunata) assenza di epidemie negli ultimi decenni e per un modello di società meno collettivo e più individualista rispetto a quello asiatico. 

Non è un caso che anche altri paesi dell'Asia orientale sembrano meglio attrezzati dell'Europa a contenere o prevenire l'epidemia. La Corea del Sud è stata a lungo il secondo paese col maggior numero di contagi, prima di essere sorpassata dall'Italia e dall'Iran. Dopo un'iniziale sottovalutazione, Seul ha annunciato uno stato d'emergenza che non ha comportato quarantene di massa, ma semmai un capillare controllo tanto che fino a qualche giorno fa erano stati fatti oltre sei volte i tamponi fatti in Italia. Tracciatura, sanificazione, postazioni di controllo sanitario lungo le strade delle città e le autostrade e un ampio utilizzo della tecnologia sono gli ingredienti della ricetta coreana, che ha portato a un costante calo dei casi nell'ultima settimana. Il tutto anche grazie al richiamo alla responsabilità dei cittadini, che hanno in larga parte rispettato le indicazioni del governo. Anche qui, però, le istituzioni non sono prive di errori. Dopo aver annunciato che il picco potrebbe essere stato raggiunto, le strade e i negozi di Seul sono tornati a riempirsi. Con la conseguenza che ora si teme la nascita di un nuovo focolaio proprio nella capitale. Il governo è tornato a essere più assertivo, sperando che questo basti.

Diverso il caso di Taiwan, che per il momento registra solo 47 casi di coronavirus. L'isola, che si trova a 130 chilometri di costa dalla provincia cinese del Fujian, ha saputo rispondere con grande rapidità alla minaccia agendo, per ora con successo, sulla prevenzione. E lo ha fatto senza particolari restrizioni delle libertà civili, complice l'esperienza vissuta con la Sars. E' entrato rapidamente in funzione un Centro di comando epidemico con larghe deleghe in materia sanitaria e di investimenti (mentre, per fare un esempio, l'Italia ha nominato un supercommissario solo dopo quasi tre settimane dall'inizio dell'epidemia "autoctona"). Sono state prese poi misure stringenti in materia di visti e di immigrazione. Un esempio? Dopo che l'Italia (primo paese al mondo a farlo) ha bloccato i collegamenti aerei diretti e ha introdotto la quarantena per chi arriva da Taipei, il governo taiwanese è stato tra i primi a imporre restrizioni a chi viaggia dall'Italia, basandosi sui dati di contagio in crescita esponenziale.

Anche qui si fa un largo utilizzo degli strumenti tecnologici, in primis i big data per creare un sistema di gestione centralizzato per i dati sanitari e i dati di viaggio. Il governo ha poi deciso di aumentare la produzione delle mascherine, dall'altro lato ottimizzando la distribuzione attraverso un sistema di acquisto nominale che ne garantisce l'acquisto di un numero limitato ogni settimana. Anche qui, più in generale, la normale prevenzione come il distanziamento personale e l'utilizzo dei prodotti di sanificazione è molto più esteso che in Europa. Compreso quello, ovviamente delle mascherine, che ancora fino a pochi giorni fa era visto con sospetto persino nella Milano già alle prese con l'epidemia.

Insomma, non sembra esistere un modello unico di contenimento del contagio. Ci sono vari modelli applicabili a diverse situazioni e in diverse comunità. Ciò che ha maggiori probabilità di funzionare è la combinazione virtuosa tra competenza e risolutezza delle istituzioni politico/sanitarie e il senso di responsabilità dei cittadini. La speranza è che l'Italia trovi la sua strada, per fermarsi e poi ripartire meglio di prima.