Esteri

Festa della donna e 8 marzo, nelle zone di guerra non c'è niente da celebrare

di Marilena Dolce

I rapporti delle agenzie internazionali parlano chiaro: oltre agli altri crimini contro le donne è stata usato lo “stupro come arma di guerra”

“Voglio parlare, essere d’aiuto” dice. “Voglio che la comunità internazionale capisca quello che sta accadendo. Per quanto ho subito, non sento niente. Sono giovane ma so che da grande voglio fare il medico, per difendere le donne”. In questi giorni la nostra vice ministra degli Affari Esteri, Marina Sereni è stata ad Addis Abeba e ha incontrato la Presidente dell’Etiopia, Sahle Work Zewde. Tra i vari punti in agenda, un tweet informa che le due politiche hanno parlato del ruolo delle donne nei processi di pace. Tema mai come ora d’attualità. E un’altra donna arriverà ad Addis Abeba. Si tratta di Fatou Bensouda, ex procuratore della Corte Penale Internazionale, ora a capo di una commissione d’inchiesta nominata dall’Onu per identificare i colpevoli delle violenze commesse in guerra.

Una guerra silenziata quella del Tigray, raccontata poco dalla stampa internazionale sempre distante dall’Africa, che invece è accorsa subito nella più vicina Ucraina. Hanno però fatto scalpore alcune frasi pronunciate la scorsa settimana da giornalisti occidentali che per spiegare la propria commozione, l’empatia con il fronte ucraino, hanno detto che ciò era dovuto all’essere europei e bianchi. Perché l’Ucraina non è l’Iraq o l’Afghanistan, in Ucraina c’è civiltà, insomma.

A queste affermazioni, come ad altre che sottolineavano la vicinanza alla sofferenza di uomini e donne con occhi azzurri e capelli biondi, che “potremmo essere noi”, i social hanno risposto secchi con l’hashtag “uncivilized”, incivile, per stigmatizzare la strana morale razzista dell’Occidente che ritiene che ci sia sofferenza e sofferenza. Per esempio, quanto vale quella di uomini e donne morte nel conflitto in Etiopia? Da qui la protesta in rete degli “incivili” che hanno postato immagini di civiltà che non lasciano spazio al dubbio. Pensiamo, per rimanere in Etiopia, a Lalibela, alle sue antiche chiese scavate nella roccia.  

“Incivili” peraltro gli etiopici lo erano anche per gli italiani, quando nel 1935 Benito Mussolini inviò “il più grande esercito coloniale”, per “civilizzare l’Affrica”, parole dal Diario del maggiore Sem Benelli, che partecipò alla missione. Nel Tigray, che è la stessa zona dov’è divampato il conflitto nel 2020, i nomi delle città ricordano la marcia italiana verso la conquista di Addis Abeba. Quello che forse si sa meno è che tra i combattenti etiopici che organizzarono la resistenza, molte erano donne, pronte a imparare a usare i fucili, a togliere dai proiettili la polvere da sparo per riutilizzarla, a difendere con la vita la propria terra. “Non sono giorni in cui far mostra di essere solo una moglie, una sorella, una madre… siamo più di questo”, dice Aster, una di loro, nel bel romanzo storico di Maaza Mengiste. Già, perché le donne sono sempre più di questo.

@Marilena Dolce

 

 

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