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Israele vuole il crollo dell'Iran. Ma la guerra totale è un azzardo

Tel Aviv in all in sogna il colpo alle centrali nucleari. Ma il vero punto debole dell'Iran si chiama petrolio. I politologi Usa pro Netanyahu suggeriscono di colpire il greggio. E la strategia di Israele è rischiosa

Israele vuole il crollo dell'Iran. Ma la guerra totale è un azzardo

A una settimana dagli attacchi iraniani contro Israele del 1° ottobre, Tel Aviv non ha ancora risposto a Teheran nonostante i durissimi ammonimenti del primo ministro Benjamin Netanyahu. Lo Stato Ebraico elabora la sua risposta, e passo dopo passo forze armate e diplomazia sono al lavoro. Le forze armate di Israele per cercare bersagli e obiettivi. Le diplomazie per sanare il rischio maggiore: quello di uno strike israeliano contro i reattori nucleari di Teheran. Una prospettiva che preoccupa soprattutto gli Stati Uniti. Il cui obiettivo è, senz’altro, quello di contenere e appaltare a Netanyahu e all’Israel Defense Force il compito di esercitare deterrenza e contenimento contro l’Iran. Ma non quello di alzare la linea rossa fino all’attacco contro i reattori in cui si ritiene la Repubblica Islamica stia lavorando per ottenere un deterrente atomico.

Il petrolio: il vero nervo scoperto dell’Iran

Del resto, per Israele non potrebbe necessariamente essere il nucleare il bersaglio più appetibile. La realtà dei fatti è che l’idea di colpire i siti in cui l’Iran potrebbe costruire la Bomba afferisce più a una volontà di escalation di Netanyahu che a precise ragioni strategiche. La capacità iraniana di ottenere e governare un deterrente atomico sfruttabile è tutta da dimostrare. Ben diverse, invece, le prospettive con cui un raid potrebbe operare colpendo i ben più nevralgici terminal petroliferi. L’analista militare Edward Luttwak ha “sussurrato” a Israele su Unherd i possibili target: “all'ultimo conteggio, nel 2023, il petrolio rappresentava l'83% delle esportazioni iraniane”, ha scritto il politologo americano. Sostenendo che “il flusso di dollari che sostiene i nemici di Israele, e che ha causato così tanti problemi agli interessi occidentali dal deserto siriano al Mar Rosso, deriva quasi interamente dal petrolio caricato sulle petroliere al terminal di esportazione sull'isola di Khark, un granello di terra a circa 25 chilometri dalla costa meridionale dell'Iran“. 
Un bersaglio, questo, raggiungibile dai cacciabombardieri israeliani. Paolo Mauri su InsideOver ha ricordato che Tel Aviv può usare i furtivi F-35 di moderna fattura per colpire target a media distanza, mentre F-15 e F-16, riforniti in volo, garantirebbero strike a più lunga distanza. I raid sulla base yemenita di Hodeida, da cui i ribelli Houthi hanno lanciato gli attacchi alle navi nel Mar Rosso, sono stati la prova generale di un’eventuale offensiva contro l’Iran. Israele potrebbe aver a disposizione, nel cassetto, i piani che negli Usa erano stati elaborati ai tempi dell’amministrazione Trump, che secondo quanto rivelato da alti funzionari tra il 2019 e il 2020 accarezzò più volte l’ipotesi di chiudere la partita della minaccia iraniana proiettata tra Medio Oriente e Mediterraneo con attacchi diretti al Paese degli Ayatollah. 

Rischiare tutto per un Nuovo Medio Oriente?

Chiaramente tutti questi piani, anche nel caso dei raid sugli impianti petroliferi, scontano l’indeterminatezza della reazione di Teheran e, soprattutto, le possibili conseguenze in termini strategici. I falchi che sostengono Netanyahu ritengono che la fase aperta dalla guerra di Gaza abbia inaugurato un gioco che vale la candela: quello di plasmare un nuovo Medio Oriente puntando al bersaglio grosso, l’obliterazione del regime degli ayatollah in Iran. “C'è una strategia in questa guerra che molti esperti non colgono: è quella di indebolire i religiosi in Iran, il cui regime è già profondamente impopolare tra la sua stessa popolazione”, ha scritto il politologo Robert Kaplan, tra i teorici dell’interventismo mediorientale, su National Interest. Aggiungendo che “un nuovo Medio Oriente senza uno stato iraniano nichilista non sarà raggiunto dai puri di cuore” e che l’offensiva contro Teheran sia una mossa da compiere. Di parere diverso il generale Paolo Capitini, che ricorda come andando in all-in Israele rischi di perdere la flessibilità strategica di una risposta graduale e di inserirsi nella strada senza ritorno di una pressione bellica su più fronti difficilmente sostenibile. Quel che è certo è che questa storia non sembra finire qui. Così come non sembra destinata a concludersi la lunga conflittualità che anima il Medio Oriente.