Libri & Editori

70 anni di Bur, Lidia Sella racconta: 'Riaffiora in me un luminoso ricordo'

Lidia Sella

Dalle nebbie del tempo, oggi riaffiora in me un luminoso ricordo, archiviato in un cassetto della mente con l’etichetta Bur, e approdato alla riva della realtà, come ogni circostanza della vita, attraverso una lunga serie di eventi e coincidenze. Verso la fine del ‘97, mi ero dedicata alla stesura di un articolo che intitolai Riflessioni sugli specchi, dove analizzavo lo specchio sotto ogni angolazione possibile, dalla fisica alla letteratura, dall’erotismo alla psichiatria. Dopo aver attraversato il seducente labirinto di immagini interiori costruito da Friedrich Dürrenmatt nel racconto Il Minotauro, provai il desiderio di indagare più a fondo i misteri celati dietro lo specchio. I frutti del mio approfondimento confluirono in un resoconto dal taglio giornalistico, che proposi alla redazione del settimanale D, l’inserto di Repubblica. Consegnato in portineria il dischetto contenente il testo, restai in attesa di un responso da parte del capo redattore, una donna. Qualche settimana più tardi appresi con rammarico, e con un certo stupore, che il mio elaborato era stato respinto. La colpa di cui mi ero macchiata consisteva nell’aver utilizzato “un linguaggio troppo erudito per un femminile”.

Un po’ amareggiata, e in cerca di conforto, lo sottoposi per un parere critico al mio amico Massimo Fini, giornalista e scrittore. Lui lo giudicò molto interessante, sebbene più adatto a una terza pagina. Decise quindi di trasmetterlo via fax a Stenio Solinas, che allora dirigeva la cultura a Il Giornale. E, già l’indomani (21 gennaio ‘98), il mio intervento fu dato alle stampe. Iniziò così la mia collaborazione per questa testata.  Una mattina d’estate Stenio Solinas mi telefonò - ancora si usava parlarsi, prima che inventassero le mail - per commissionarmi un pezzo sul poeta Ovidio. Mi chiese se avevo un’idea da suggerirgli in proposito. Gli risposi subito di sì. In quel momento le mie sinapsi avevano riacceso i riflettori su una gioia intellettuale che mi era capitata in sorte decenni prima. Quando ragazzina, sempre a caccia di libri nella fornitissima biblioteca di mio padre, un pomeriggio mi imbattei in un romanzo storico su Ovidio. Lo divorai. Mi stregò. Il caso volle che anche Stenio Solinas fosse innamorato di quel capolavoro. Si trattava di Dio è nato in esilio di Vintila Horia. Tale opera avrebbe vinto il premio Goncourt, nel 1960, se l’Humanité, organo di stampa del partito comunista, non avesse montato una campagna denigratoria contro l’autore, accusato di simpatie filonaziste.

Vicende politiche a parte, grazie a“Dio è nato in esilio” Horia ebbe comunque il merito di traghettare nel XX secolo il poeta latino Ovidio, con tutto il suo fardello di straziante, dolcissima umanità. E se Horia si immedesimò tanto bene in Ovidio, fu forse anche perché le linee dei loro destini presentavano numerosi punti in comune: la Romania, luogo natio per Horia e confino per Ovidio; l’attrito con il potere costituito, rappresentato dal regime comunista per Horia e, per Ovidio, dall’Impero di Augusto; il dramma dell’esilio; l’amarezza di aver subito una censura ideologica sulla propria opera; l’orrore di morire in terra straniera. Dopo le Edizioni de Il Borghese (1961), i diritti di questo romanzo passarono a Fogola (1979) che, a sua volta, li cedette a Rizzoli. Scoprii che il tentativo di resuscitare questo libro si doveva a Franco Grassi, comandante in capo della Bur. Lo chiamai, fu molto gentile e mi confermò che, poiché considerava Dio è nato in esilio un autentico gioiello narrativo, aveva brigato affinché il Gruppo Rizzoli se lo accaparrasse. Mi pregò di segnalargli in quale data la mia recensione sarebbe uscita. E, quando ciò avvenne, il 21 luglio ‘98, lo avvisai con un fax. Quella sera, nel rientrare a casa, trovai la spia della segreteria che lampeggiava, e ascoltai il messaggio che mi aveva lasciato.

Diceva: “La ringrazio tantissimo per ciò che ha scritto su Ovidio. E su Horia. E, se vorrà spingersi sino a qui, i nostri uffici sono infatti un po’ decentrati, sarei lieto di incontrarla di persona.” Volentieri accolsi l’invito e ci accordammo per un appuntamento. Ancora abbastanza giovane e carina, la pelle dorata dal sole di una breve vacanza in Sardegna, emozionantissima, bussai alla porta di Franco Grassi. “Prego, entri pure.”, mi disse. Ma non appena la mia testa fece capolino in quella stanza e lui mi vide, aggiunse: “Credo che lei abbia sbagliato ufficio. ”Una decina di minuti più tardi mi confessò che era stata la sua esperienza nel mondo dell’editoria a dettargli una simile risposta. Con un sorriso ironico mi spiegò che le intellettuali che aveva conosciuto erano quasi tutte piuttosto bruttine. Fra noi si avviò un’amabile conversazione. Finimmo a parlare di scrittori ungheresi. Gli svelai la mia predilezione per Ferenc Körmendi. Gli sembrò strano che potessi conoscerlo, giacché in Italia la sua produzione era introvabile da anni. Dati i miei gusti, era sicuro che avrei apprezzato Sándor Márai. Adelphi aveva da poco tradotto e pubblicato Le braci.

Me ne regalò una copia. Su un biglietto, spedito a Franco Grassi, annotai a caldo le mie impressioni di lettore. “3 agosto ‘98. Diluvia da ore. Non sono partita per il mare. In compenso ho trascorso un pomeriggio indimenticabile. Ho letto Le braci. Forse vale la pena di soffrire una vita intera, se poi ci è offerta l’opportunitàà di leggere un libro così. Terminata l’ultima pagina, ho singhiozzato a lungo, preda di una commozione intensa, irrefrenabile. Non capivo se, a prevalere, fosse la gioia o la disperazione. Ma ho provato un bisogno estremo di comunicare con qualcuno che si fosse calato prima di me in questa vicenda, che l’avesse amata come l’ho amata io, che dal tunnel di un’esperienza così squisitamente umana fosse uscito con la carne a brandelli e il cuore dilaniato, per sentirsi più solo di prima, e meno solo di prima, come me ora...”

Al rientro dalle ferie, letto questo mio commento, Franco Grassi mi contattò per affidarmi la curatela di un’antologia sull’amore. Questa però è  un’altra storia. Ciò che conta, invece, è il potere dei libri di intrecciare i destini di scrittori,  personaggi e lettori, persino quando i diversi attori coinvolti appartengano a epoche lontane. Friedrich Dürrenmatt, Ovidio, Vintila Horia, Ferenc Körmendi, mio padre, Massimo Fini, Stenio Solinas, Franco Grassi, Sándor Márai... Eccoli i personaggi comparsi qui, simili a satelliti in orbita attorno al pianeta dei libri, paradiso terrestre dove a noi mortali è concesso di sperimentare un numero infinito di esistenze, passibili di replicarsi in continuazione, addirittura simultaneamente, e di eternarsi nell’imbuto di futuri remotissimi.

Una catena di uomini uniti dalla passione per la cultura, dai quali ho ricevuto straordinari doni di sapienza e immaginazione che poi, come per incanto, si sono trasformati in carezze nel cuore, e in ancore, vele e fari, per navigare fra i meandri della psiche. Con alcuni di questi  interlocutori ho dialogato, purtroppo, solo attraverso l’eco, l’ombra, che la loro voce, il loro pensiero, hanno proiettato sulla pagina scritta, decenni, millenni prima. Eppure il prodigio si è verificato lo stesso, gli abissi del tempo si sono ritirati in un istante, azzerata di colpo la distanza. Perché il libro in fondo è invenzione stregonesca, incontro alchemico di anime, inchiostro e sangue.