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“Ferrovie del Messico”, un capolavoro della narrativa italiana

di Chiara Giacobelli

Rientrato nella dozzina del Premio Strega 2023, il romanzo di Griffi è senza dubbio una delle opere più valide degli ultimi anni

Ferrovie del Messico di Gian Marco Griffi, pubblicato da Laurana Editore, ha ottenuto numerosi riconoscimenti, tra cui la selezione nella dozzina del Premio Strega 2023. Ecco perché vale decisamente la pena leggerlo.

Sono davvero rari i romanzi che si distinguono per la loro capacità di intrecciare una trama complessa e avvincente con una profonda riflessione storica e al contempo umana. Ferrovie del Messico di Gian Marco Griffi (forse), pubblicato lo scorso anno da Laurana Editore ma ancora caposaldo della narrativa contemporanea italiana di qualità, è decisamente tra questi. Ambientato durante la Seconda Guerra Mondiale, il corposo volume segue le vicende di Cesco Magetti, un modesto soldato impiegato presso la Guardia nazionale repubblicana ferroviaria ad Asti, che a un certo punto viene incaricato di una missione apparentemente assurda: trovare una mappa delle ferrovie del Messico per conto del regime nazista. Questa premessa surreale è solo il punto di partenza di un viaggio che mescola sapientemente realtà e immaginazione, offrendo peraltro un ritratto vivido dell’Italia di quegli anni, attraverso l’uso di una potente ironia.

In questo universo creato da una mente se non geniale, quantomeno estremamente creativa, sono molti i personaggi originali e stravaganti che ne popolano le pagine, ciascuno descritto con grande attenzione non solo di dettagli, ma anche psicologica. Il protagonista Cesco Magetti è di fatto un anti-eroe: un uomo semplice, quasi anonimo, che si ritrova suo malgrado coinvolto in una missione assurda; seguendo le tracce di un libro forse utile a realizzare la fantomatica mappa delle ferrovie del Messico, Cesco – perennemente tormentato da un dente cariato, ma troppo traumatizzato dai dentisti per decidere di farsi curare – finirà per confrontarsi fino in fondo con la follia della guerra e con la meschinità del regime nazi-fascista, arrivando a toccare un epilogo che neppure lui avrebbe mai potuto immaginare. Al suo fianco, troviamo una serie di personaggi minori non meno significativi, come i colleghi ferrovieri, gli amici d’infanzia, il suo capo presso la Guardia nazionale repubblicana ferroviaria, gli spassosi becchini, il poeta alloggiato in una chiesa sconsacrata e tutti coloro che, in un modo o nell’altro, lo aiuteranno nel corso della sua disperata ricerca. Poi c’è Tilde, la donna sfuggente e sognatrice di cui si innamora, incarnazione del mistero e al contempo della speranza in un contesto di totale afflizione e sconforto. Ci troviamo nel 1944 ad Asti, nel pieno della Repubblica Sociale Italiana: ci si aspetterebbe un credo incommensurabile e cieco nel regime fascista, eppure dal racconto tragicomico di Griffi emerge una verità ben diversa, decisamente bisognosa di mondi paralleli, realtà magiche e sogni inafferrabili in cui credere.

L’intento dell’autore è chiaro agli occhi del lettore: la volontà di esplorare le contraddizioni e le assurdità del Nazi-Fascismo e di quel periodo storico più in generale, utilizzando l’elemento surreale come lente attraverso cui osservare la Storia. Lo stile è ricco di metafore e immagini evocative, che rendono la lettura un’esperienza intensa e coinvolgente, dal momento che Griffi si ispira ai grandi maestri della letteratura del Novecento e del Postmodernismo, tra cui Italo Calvino e Jorge Luis Borges, Emilio Gadda e James Joyce, ma anche Henry Miller, Roberto Bolaño, Georges Perec, Thomas Pynchon. Questa influenza è evidente in primo luogo nella struttura narrativa, che salta da un periodo storico all’altro, mescolando passato e presente – nonché luoghi e personaggi diversi tra loro – con una complessità tale, da divenire quasi impossibile seguirne ogni passaggio; al contempo, il Postmodernismo è presente anche nelle tematiche trattate e nella profondità delle riflessioni filosofiche, che di base criticano con sarcasmo la società dell’epoca.

Ferrovie del Messico
 

L’entrata nella dozzina di Ferrovie del Messico, proposto da Alessandro Barbero ed evidente pecora nera della selezione, ha subito acceso una vivace polemica, in parte perché alcuni critici hanno ritenuto che la scelta di includerlo nello Strega fosse un segnale di eccessiva apertura verso stili narrativi meno convenzionali e più sperimentali. La discussione si è ulteriormente intensificata quando Griffi ha espresso, in diverse interviste, il suo "disinteresse" per i premi letterari, affermando: “scrivere è un atto di libertà che non dovrebbe essere condizionato dal desiderio di riconoscimenti” (La Repubblica, marzo 2023). Tuttavia, il vero dibattito è sorto attorno all’identità dell’autore, fino ad oggi poco noto per le sue opere precedenti e impegnato in altre attività lavorative; in molti hanno ipotizzato la presenza di un collettivo di autori dietro al libro, o altre possibilità.

In fondo, è stato lo stesso Marco Drago, il quale ha firmato la postfazione, ad aprire la questione prima ancora che il volume arrivasse in commercio: «Il libro è ambizioso, lungo e complesso, ma è anche divertente, commovente e avvincente. In una parola: riuscito. L’uomo che l’ha scritto è un signore della provincia di Asti che lavora in un centro sportivo, per essere precisi dirige un campo da golf (nel libro il golf compare in una delle scene più esilaranti). Quello che il lettore medio si chiede è: ma come ha fatto questo signore della provincia di Asti, che avrà il suo bel daffare a dirigere il campo da golf, che avrà una vita familiare che comprende una coniuge e dei figli, dei genitori anziani, delle scadenze da rispettare, come ha fatto questo signore a documentarsi così accuratamente per poter scrivere della Asti del 1944 senza sbagliare un riferimento, per poter scrivere con apparente sapienza di Messico, di Germania nazista, del processo attraverso il quale dalla cellulosa si ottiene la carta e così via per un milione di battute? Quello è un mistero che deve rimanere tale. Magari Gian Marco Griffi non esiste. Gian Marco Griffi potrebbe essere un computer a cui è stato insegnato a produrre una cosa che per comodità chiamiamo romanzo. Qualcuno ha premuto start e ne è uscito questo libro. O magari è un collettivo di scrittori, ognuno specializzato in uno specifico ramo della conoscenza. O magari è solo uno scrittore che è rimasto impigliato nella sua stessa storia, nel suo stesso labirinto, ed è ancora lì che cerca di uscirne». Ed ecco chiusa la questione.   

Uno dei punti di forza del romanzo è sicuramente la capacità di Griffi di combinare una narrazione avvincente con una riflessione profonda sul senso della storia e della memoria. Le descrizioni dei paesaggi italiani, devastati dalla guerra, sono poetiche e strazianti al tempo stesso, mentre la caratterizzazione dei personaggi ci appare così dettagliata da far sì che i loro dilemmi interiori diventino palpabili. Specie quello di Tilde, che – incompresa da tutti, persino dalla propria famiglia – finisce immobile in un letto d’ospedale a causa di una serie di elettroshock e farmaci. Alcune delle scene o delle frasi più intense ed esistenziali sono proprio legate a lei. «Restò in silenzio per qualche tempo, immobile. Poi di colpo, come se ci avesse rimuginato sopra attentamente, disse: il tuo mal di denti passerà, Cesco. Una mattina ti sveglierai e non ci sarà più. Al principio sentirai la bocca strana, indolenzita. Ma poi lo scorderai. Ora immagina il dolore che stai provando e moltiplicalo per dieci, pensalo ancora più potente e soprattutto immutabile e perenne, e soltanto allora potrai comprendere il dolore che covo dentro io». Oppure, a proposito del sapersi conformare a una società consumistica e, in questo specifico caso, persino dittatoriale: «So che ogni madre brama per i propri figli una certa consuetudine (la normalità dei figli è la serenità dei genitori), giacché lo sappiamo tutti che a questo mondo l’eccezione o l’anomalia sono malviste, malgiudicate (è così da sempre, sarà sempre così), trascurando che spesso lo scarto dai binari è quanto di meglio ci si possa augurare per un figlio o per una figlia […]. Ma il Dottore e la Signora non la pensavano allo stesso modo. Volevano una figlia come tutte, una figlia felice di stare al mondo per come il mondo è, o quantomeno una figlia che tollerasse il mondo senza la sciocca ambizione di deviarne l’orbita, giacché a noi umili figli dell’uomo (soprattutto se figlie) non è consentito di modificare le dinamiche che regolano i vortici sociali, economici, politici».  

Tornando al romanzo e al suo intento, in un’intervista rilasciata a L’Indice dei Libri del Mese Griffi ha dichiarato che Ferrovie del Messico è nato “dall’esigenza di raccontare una storia che fosse al tempo stesso personale e universale, capace di parlare al cuore e alla mente dei lettori”. Ha anche sottolineato l’importanza del “tema del viaggio, non solo come spostamento fisico, ma come percorso interiore verso la comprensione di sé e del mondo”. A noi di Affari l’autore ha risposto ad alcune curiosità, a cominciare da dove abbia preso spunto per realizzare un capolavoro del genere. “Borges e Bolaño sono senza dubbio modelli di riferimento, anche se in maniera molto diversa. Dalla lettura di Borges ho provato a imparare l’intreccio tra fantastico e realtà, dalla lettura di Bolaño la sua brama di raccontare storie, come se fosse l’unico modo per contrastare il pensiero della morte. Ma ci sono così tanti altri modelli dai quali ho provato a imparare la difficilissima arte di raccontare storie mediante l’uso del linguaggio, da Cervantes a Mari, dall’Horcynus Orca di D’Arrigo all’Oga Magoga di Occhiato, passando per Joyce e Eliot, cosicché qualunque elenco sarebbe incompleto. Ma quello che deve emergere, al di là dei modelli, è la mia cifra stilistica: non ho alcun interesse ad abbattere o a rinnegare i miei modelli, anzi, voglio assorbirli e amalgamarli per ottenere una cosa nuova e diversa che è la mia scrittura, una scrittura che sgorga da una sorgente di parlato letterato, in cui il linguaggio si modella e rimodella continuamente attraverso l’adozione di un lessico sovraccarico di significati, nel quale si intrecciano diversi livelli, dall’italiano letterario alla parlata popolare e al dialetto italianizzato, fino al tentativo di riscoprire parole in disuso per metterle nuovamente in circolazione, oppure all’utilizzo di parole comuni (talvolta anche abusate) per tentare di ridargli nuova vitalità”.

Con lui abbiamo anche parlato del ruolo dell’ironia e del sarcasmo, che costituiscono una cifra stilistica fondamentale in Ferrovie del Messico e fanno sì che un libro di tale spessore non risulti mai pesante o noioso, restando al contrario una lettura piacevole e spassosa ad ogni pagina. “L’ironia è propriamente il mio modo di osservare il mondo, oppure, se vogliamo metterla in un’altra maniera, diciamo pure che la mia scrittura fa dell’ironia un suo caposaldo. Certo, ci sono vari livelli di ironia, ma è bello usarli tutti, dall’ironia amara a quella crudele, fino a sconfinare nella satira o nella parodia, altro mezzo che amo particolarmente. Per i contenuti no, ma per struttura Ferrovie del Messico è anche un grande gioco, una grande burla: nella fase di scrittura e di lavorazione non ho mai perso di vista il progetto di scrivere la parodia di una parodia, ovvero di giocare con una certa idea di opera mondo per restituirne una versione beffarda, burlesca, anche nelle parti più drammatiche o tragiche. Ci sono molti modi per affrontare il dolore e il trauma: io ho scelto di mascherare (molto spesso) la tragedia nella commedia, talvolta anche nella farsa (viceversa spesso la farsa e la commedia volgono in tragedia); in tal senso l’ironia e la parodia sono mezzi importantissimi. Per Ferrovie del Messico qualcuno ha parlato di romanzo enciclopedico: ecco io non avevo alcuna intenzione di scrivere un romanzo enciclopedico, semmai volevo scrivere la parodia di un romanzo enciclopedico. Scrivere in questo modo, con questa visione del mondo, non significa abbandonarsi alla superficialità, ma proprio il contrario: non c’è maniera migliore per affrontare l’essere umano con le sue miserie e con le sue virtù, con le sue bellezze e con i suoi abissi di malvagità, con le sue debolezze e le sue conquiste, se non per l’appunto attraverso l’ironia in tutte le sue sfumature. Far ridere le persone è bellissimo; se poi riesci a farle ridere e a emozionarle, a divertirle e a farle riflettere in un colpo solo, non c’è niente di meglio”.  

In conclusione, Ferrovie del Messico è senza dubbio alcuno un romanzo che merita di essere letto per la sua originalità e profondità. Attraverso la storia di Cesco Magetti, l’autore riesce a trasmettere una potente critica al Nazi-Fascismo e alla guerra, offrendo al contempo una riflessione sulla condizione umana e sulla ricerca di senso in un mondo spesso assurdo e incomprensibile. Il libro è un tributo alla forza dell’immaginazione e della letteratura, capace di trasformare anche le realtà più dure in storie di straordinaria bellezza e significato.

Ferrovie del Messico