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Annalisa Monfreda lascia la direzione di Donna Moderna: lo sfogo online
Riflessioni di una mamma, giornalista e donna del nostro tempo
Al privilegio materiale, in questa storia, si associa anche un privilegio immateriale. La cui rinuncia mi è sempre parsa la più indolore: non vedevo l’ora di tornare a giocare nel campo dell’autenticità, senza dovermi chiedere ogni volta la vera natura delle relazioni che intrecciavo. Anche qui, però, avevo fatto male i conti.
Quel privilegio immateriale non apparteneva solo a me, era un bene collettivo. L’ho capito questa estate, quando ho cominciato a rivelare le mie intenzioni alle amiche più care. Il prestigio del mio ruolo, notevolmente sovrastimato rispetto al suo valore reale, figlio dell’immaginario associato alla professione di direttrice di un settimanale femminile, era un motivo di orgoglio per loro così come per i miei parenti, i miei compagni di ballo, di avventure estreme, persino per quelli del liceo, per i miei prof, per gli abitanti del mio paese di origine, per il parroco.
Non c’è uno di loro che un giorno non abbia detto: la direttrice di Donna Moderna io la conosco, è una mia amica, l’ho vista crescere. Tutte le volte che in questi anni mi hanno celebrato o premiato, riempiendo la mia libreria di ogni sorta di targa, o mi hanno invitato nelle scuole a ispirare i bambini, era perché avevano fatto di me un simbolo.
Rappresentavo la possibilità concreta che anche una giovane donna del Sud, con un’attitudine solitamente poco associata al successo, potesse riuscire a emergere in quello che sembra un mondo competitivo, invece è il più meritocratico che io conosca. Sapevo che non avrei faticato a staccarmi dai benefit come feste, inviti, regali. Ma oggi so che sarà difficilissimo rinunciare a quegli sguardi pieni di orgoglio e di riconoscenza. E so che farò di tutto per sentirli posare nuovamente su di me. Per meritarli ancora.
E veniamo all’ultimo privilegio, quello che ho. Non avrei mai compiuto questo passo se stessi giocando la partita da sola. Non si tratta solo di essere in coppia, ma di avere una relazione che, per quanto imperfetta e migliorabile su un’infinità di aspetti, assomiglia tanto a una squadra. Ecco, far parte di una squadra è la condizione psicologica ideale per affrontare il rischio.
Ci è già successo in passato. Ho convinto lui a lasciare una situazione lavorativa tossica, l’ho motivato a prendersi il tempo per studiare, a non affannarsi a cogliere la prima occasione ma ad avere la pazienza di aspettare quella giusta. Per lui è stata dura da accettare, ma ha funzionato. Adesso sta facendo lo stesso con me. Ogni mattina ripulisce il campo della mia mente dai residui di sensi di colpa e paure lasciati dalla notte. Sa che quella è la rampa di lancio da cui un giorno o l’altro dovrò decollare e lui si è preso in carico la sua manutenzione.
Mi sprona a studiare, a progettare, sfida le mie idee come farebbe con quelle dei suoi clienti, perde la pazienza quando io perdo la fiducia. Il vero senso di giocare in squadra è che giochi anche quando sei in panchina. Giochi anche mentre ti riposi e ti ricostruisci i muscoli. E questo è il vero privilegio che oggi mi riconosco: poter vivere questa scelta come una opportunità di ridisegnare il lavoro, l’esistenza, i miei stessi sogni."