Big Company, angeli o demoni?
Il rapporto con l'ideologia mondialista
La Silicon Valley Usa è il punto più avanzato dell’Occidente ed ha fatto della tecnologia sua forza. Le grandi aziende come Google, Facebook, Twitter, Amazon (sempre costa ovest, ma a nord), Apple, Tesla, quelle che dominano il settore della Information Technology, sono tutte in questo angolo di terra semidesertico affacciato sull’Oceano Pacifico.
Sono le moderne colonne d’Ercole dell’Ovest. Oltre il mare c’è di nuovo ipertecnologia, il Giappone e la Corea del Sud, ma questa volta siamo in oriente.
E tra le due sponde di questo oceano che si gioca la partita dello sviluppo mondiale.
Queste Big Company, come sono chiamate, hanno rivoluzionato l’intera civiltà, più dell’invenzione della stampa. Internet, il Web, le email, gli sms, WhatsApp, gli smartphone, sono stati protagonisti di una autentica rivoluzione che ha cambiato l’esistenza di miliardi di persone, modificando rapporti produttivi, economici, finanziari, politici e sociali.
Ora tutti sono in contatto con tutti e, soprattutto, ogni atto, ogni azione lascia traccia indelebile sul Web, che come una sorta di modellabile plastilina cosmica assorbe ogni cosa venga detta o fatta e la trasforma in una specie di memoria universale collettiva che ci accompagna per sempre.
Questo enorme potere però è sempre più contestato per l’utilizzo che se ne è fatto. Basti pensare a Facebook e alle recenti polemiche sulle sue interferenze sulla campagna elettorale Usa e la diatriba con la Russia.
E qui veniamo alla politica.
C’è una sottile, ma tenace, linea che lega la Silicon Valley al mondialismo. Infatti con la precedente amministrazione Obama la consonanza ideologica era perfetta. Con Trump le cose sono cambiate anche se, paradossalmente, proprio il tycoon Usa ha colto il maggior vantaggio dall’utilizzo dei social, in particolare Twitter e Facebook, nella sua campagna elettorale.
I proprietari delle Big Company sono in genere progressisti e mondialisti, impegnati, almeno a parole, a “comportarsi bene” -il motto di Google è infatti: “non essere malvagio”. Il problema è che si predica bene e si razzola male, come lo scandalo della vendita dati e del Russiagate ha dimostrato. E cioè Zuckerberg si rappresenta più come uno scaltro affarista che come un benefattore dell’umanità. E parimenti alla critica ideologica emerge, come accennato, anche una critica molto concreta: i social tracciano cronologicamente e indissolubilmente tutto quello che facciamo o anche solo pensiamo con un pericolo enorme per la privacy.
Siamo di fronte a opportunità e pericoli epocali ed occorre favorire le prime e contrastare i secondi.
E dopo un periodo di incredibile successo di queste compagnie qualcosa è cambiato nella loro percezione collettiva ed il caso di Facebook è eclatante.
Da social preferito ad accuse di fomentare l’odio e l’intolleranza e di ospitare schiere cosmiche di “haters”, cioè di “odiatori professionisti” che, coperti da un comodo anonimato, spargono veleni sul web. Un nuovo substrato criminale che ha affondato la sua penetrazione nei gangli deboli della democrazia liberale e cioè la tolleranza indiscriminata. Ed anche qui il discorso si fa nuovamente politico rimandando al mondialismo e ad una ideologia puramente libertaria.
Se a questo si aggiunge che le Big Company pagano poche tasse il quadro è completo e la percezione generalizzata è che le Big Company da angeli salvifici si stiano trasformando in pericolosi demoni.