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Media e tv, la decadenza del giornalismo italiano

Media e tv, "si leggono i giornali nello stesso modo in cui si ama: con una benda sugli occhi”

Ladra di tempo, serva infedele, il titolo di un saggio sulla televisione di John Condry che, con Karl Popper, è stato tra i più autorevoli censori dei negativi effetti del sistema televisivo verso cui indirizziamo l’attenzione, limitatamente a ruolo e professionalità del giornalismo. Marcel Proust, nel primo ventennio del secolo scorso, ebbe a scrivere a proposito, dell’allora, più diffuso mezzo d’informazione: “Si leggono i giornali nello stesso modo in cui si ama: con una benda sugli occhi”. Lapidario, la sua attualità si conserva nei secoli, trasferibile nella moderna passività con cui subiamo le professionalità dei nuovi sacerdoti votati all’osservanza dei miti auditel e share esclusivi valori della programmazione televisiva.

Provando a liberarci dalle bende avvertiamo, tra l’altro, tre diseducative e irritanti criticità, procurate dall’informazione nel sistema televisivo. Ormai è prassi consolidata che, nel dare notizia della scomparsa di un personaggio pubblico, il giornalista di turno, ma la cosa si prolunga su più reti e per più giorni a secondo della popolarità del de cuius, si dilunghi sul tipo di malattia, della sua durata, della lotta (persa) intrapresa dallo scomparso, a volte anche con informazioni sul tipo di cura. Alcuni informatori appaiono anche soddisfatti, le regole del giornalismo esaudite, consumata una coazione a ripetere, appagata parte dei telespettatori, riconoscenti, hanno avuto l’occasione di sbirciare dal buco della serratura nella privacy di una persona.

Allora, tutto bene? NO! Tante volte No. Direttori di telegiornali, capi redattori, redattori, uomini e donne da video e quant’altri non si sono mai chiesto del danno psichico, umorale, esistenziale prodotto su migliaia di persone affette dallo stesso male, che fanno le stesse cure, che conducono la stessa lotta, a cui, come minimo, instillano il dubbio sulla durata della loro vita? Certamente no, tutte queste saccenti professionalità dovrebbero sapere, ma neppur avvertono, quali piccole cose sono da evitare per impedire grandi effetti.

Ormai sono tante, centinaia le organizzazioni umanitarie internazionali, Ong, Onlus e altro, che si occupano della salute e del futuro, soprattutto dei bambini africani. Unicef, organo sussidiario dell’ONU, Terre des Hommes, COOPI – Cooperazione Internazionale, Alisei, Medici Senza Frontiere, Amnesty International, UNHCR agenzia delle Nazioni Unite, Save the Children, WeWorld. Una vera esplosione di volontariato che asfissiantemente ricerca fondi per le proprie attività umanitarie. Con insistenza, sulle reti televisive, pubbliche e non, prodotti da affermate agenzie di comunicazione, passano spot con crudeli sonori e devastanti immagini: “Questi bambini stanno morendo, ora agisci versa 9 euro al mese”, sentenzia Save the Children; “Il mio nome è…sono nata femmina e questo significa che sarò vittima di violenza, di mutilazione genitale femminile e di matrimonio precoce, ma tu poi cambiare il mio futuro” punta sull’emozione WeWord; “Dona la Vista, 5 euro al mese”, il miracolo del denaro prospettato da Sightsavers Italia Onlus.

Non si possono condividere la crudezza e l’uso ricattatorio delle immagini che, lontane un miglio, olezzano di marketing per vendere, generando convinzioni di ragionato rifiuto.  E già, se occorrono nove euro al mese per salvare un bambino,108 in un anno, con 108 milioni, il costo di un F35 di ultima generazione, di bambini se ne salverebbero un milione. Allora, non è concepibile che l’intera umanità e qualche centinaio di Paesi non possano disporre di risorse alquanto modeste. In effetti ingenti contributi vengono elargiti da ONU, Banca Mondiale, Unione europea, Ministeri, Regioni e altre istituzioni internazionali disseminati però nei mille rivoli di un’armata di volontari.

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