Medicina

Alzheimer: istruzione, lavoro, relazioni... ecco chi non si ammala

di Paola Serristori

L'uomo è un essere sociale. Lavorare con un po' di fatica intellettuale ed in gruppo fa bene al cervello. L'attività di relazione, più praticata dalle donne che dagli uomini, che cogli anni tendono a cadere in depressione, è altrettanto utile. Ed anche esercitare la velocità dei riflessi. Ad Alzheimer's Association International Conference 2016 (AAIC 2016), i ricercatori di Wisconsin Alzheimer's Disease Research Center and Wisconsin Alzheimer’s Institute, Madison, Wisconsin, hanno illustrato la resistenza nell'invecchiamento di cervelli “allenati” a risolvere compiti lavorativi complessi scambiando contatti con altre persone. Lesioni della materia bianca cerebrale (WMHs) sono un indicatore di demenza e sono associate al declino cognitivo. Nondimeno è noto che l'attività lavorativa che richiede la gestione e soluzione di problemi contribuisce a formare la “riserva cognitiva”. L'obiettivo dello studio era accertare se in persone a rischio di Alzheimer (con iperdensità periventricolare e della materia bianca) il tipo di attività lavorativa svolta aveva creato una sorta di equilibrio del danno. Il campione di volontari era formato da 284 individui sani intorno ai sessant'anni, arruolati attraverso il Wisconsin Registry for Alzheimer’s Prevention e sottoposti agli accertamenti strumentali e valutazione cognitiva. Le occupazioni sono state suddivise in base allo scambio relazionale con persone, oppure concentrate su dati o cose. Inoltre sono state misurate le funzioni di apprendimento verbale e memoria, velocità e flessibilità, memoria a breve termine, e memoria immediata (la capacità di ricordare un piccolo numero di informazioni colte al volto). Il risultato è stato che più e varie attività a contatto con altre persone avevano migliorato la struttura funzionale della materia bianca cerebrale. Invece non c'era stato un beneficio se l'occupazione richiedeva di interfacciarsi con dati oppure oggetti. Dunque, malgrado il gap di lesioni ischemiche, i cervelli che avevano ricevuto stimoli relazionali nell'attività lavorativa complessa erano in grado di svolgere ancora funzioni al livello di coetanei normali.

“I nuovi dati confermano l'importanza di adottare uno stile di vita stimolante, compreso il lavoro con altre persone, per invecchiare meglio - ha commentato Maria Carrillo, a capo del comitato scientifico di Alzheimer's Association - . A mano che emergono ulteriori conoscenze, comprendiamo quanto potente possa essere la riserva cognitiva nel proteggere il cervello dalla malattia. E quest'anno ascoltiamo le conclusioni di ricerche su un ruolo ben superiore al semplice rallentamento del declino cognitivo. La 'riserva cognitiva' può compensare il danno fatto da una cattiva dieta o piccole lesioni ai vasi nel cervello. In realtà fornisce un 'superpotere'. L'adozione di comportamenti e stile di vita sani previene l'Alzheimer ed altre demenze.”

L'ATTENZIONE VISIVA RITARDA LA DEMENZA

Fattori di rischio modificabili contribuiscono ad aumentare la resilienza al declino cognitivo negli anziani. Però attenzione: c'è modo e modo. La strategia migliore è sollecitare la rapidità delle connessioni neuronali. Il professore Jerri Edwards, University of South Florida, spiega: “L''allenamento' del cervello protegge dal decadimento cognitivo e demenza. Ora dobbiamo captare meglio qual è il modo di ottenere il migliore beneficio. Il nostro studio, condotto su dieci anni, dimostra che negli adulti cognitivamente sani si sono verificati cambiamenti importanti solo in seguito allo specifico programma che richiedeva la prontezza di riflessi nell'indicare la risposta giusta in un tempo sempre più ridotto.”

Lo studio Advanced Cognitive Training for Independent and Vital Elderly (ACTIVE) ha esaminato l'effetto tre tipi di “allenamento” cognitivo su un campione di 2785 anziani (età media 73.6 anni) in sei centri americani: strategie della memoria, strategie del ragionamento, e velocità di risposta a prove visive su computer. Un quarto gruppo di partecipanti è stato considerato come parametro di controllo. I volontari hanno seguito dieci prove da sessanta minuti, in cinque settimane. Alcuni si sono sottoposti a quattro sessioni aggiuntive per un anno ed ulteriori quattro tre anni dopo la conclusione del primo programma. I cambiamenti cognitivi e funzionali del cervello sono stati misurati subito al termine delle sessioni e dopo uno, due, tre, cinque, e dieci anni. Dopo dieci anni, tra il gruppo di controllo l'incidenza dell'Alzheimer è stata del 14%. Tra i tre gruppi del programma di allenamento, solo quello che ha esercitato in velocità l'attenzione visiva ha evidenziato un tasso di demenza inferiore (12.1% dopo dieci o meno sessioni), ossia 33% di riduzione di nuovi casi di decadimento cognitivo o demenza. Nessuna significativa differenza negli altri due gruppi rispetto al campione che non aveva effettuato alcuna prova. L'allenamento consisteva nell'individuare un oggetto al centro dello spazio visivo ed allo stesso tempo identificare un altro bersaglio nella periferia. Alla risposa esatta, la velocità di riproduzione aumentava ed il grado di difficoltà nel reagire era maggiore. In più, l'oggetto periferico veniva mascherato tra altri ostacoli visivi. Coloro che avevano sostenuto le prove supplementari (undici o più) hanno ottenuto un punteggio ancora più alto: tra loro gli esperti hanno rilevato ancora meno frequenza di demenza (8.2%), equivalente al 48% di riduzione di nuovi casi.

LO STILE DI VITA COMPENSA IL DANNO

La dieta “sbagliata” per il cervello è quella a base di pane bianco, cibi confezionati, carne rossa, patate, e dolci. Eppure gli stessi scienziati che raccomandano l'importanza della corretta nutrizione dicono che il danno è compensato dal livello di istruzione, dall'attività lavorativa che richiede uno sforzo di concentrazione, e da una buona socializzazione che aumentano la “riserva cognitiva”, aiutando il cervello a trovare un equilibrio funzionale.

Matthew Parrot, Baycrest's Rotman Research Institute, Toronto, ha presentato ad AAIC 2016 Nuage Study, ricerca condotta su 351 anziani che vivono indipendenti in una comunità, ai quali è stato chiesto di descrivere l'alimentazione abituale. Per misurare la funzione cognitiva sono stati utilizzati

test (Modified Mini-Mental State Examination; 3MS). A parità di rischio per la cattiva qualità dei nutrienti al cervello, solo gli anziani con un punteggio inferiore nella riserva cognitiva sono risultati effettivamente in declino.