Musica

Ritorna sempre più "alieno" Stefano Bollani

di Raffaello Carabini

Ci mancava solo questa nel repertorio multiforme del pianista milanese, cresciuto a Firenze e ultimamente fisso a Roma, Stefano Bollani. Ci mancava il debutto come cantautore, ironico, irridente e non privo del "messaggio" sociale. Nato nello show business come jazzista, talentuoso, pluripremiato e capace di piccoli capolavori discografici, si è nel tempo aperto a collaborazioni di musica classica (è diplomato al Conservatorio), di pop-rock (Ranieri, Elio, Bersani...) e di sperimentazione (Hector Zazou, Elliott Sharp...), poi si è scoperto autore e interprete teatrale e conduttore televisivo, fino a proporsi oggi come cantautore. "In realtà", dice scherzando ad Affaritaliani, "era questo il mio sogno: da bambino volevo essere Celentano, lo imitavo allo specchio e sapevo le sue canzoni a memoria".

Si tratta per ora di sole tre canzoni - una quarta, seppure registrata, l'ha scartata perché inadatta alla sua voce: "è troppo seria, parla di cose di cuore" - che però caratterizzano il nuovo album di Bollani, intitolato "Arrivano gli alieni". Un album in cui la prorompente vitalità musicale del pianista è alle prese con un repertorio che racchiude molte delle istanze della sua abituale ispirazione, i brani jazz, le riprese dal canzoniere brasiliano, la hit italiana "Quando, quando, quando", le improvvisazioni, Duke Ellington e Horace Silver... Il tutto proposto in totale solitudine, con il pianoforte acustico e l'elettrico Fender Rhodes, una reliquia ormai degli anni 70.
"Le canzoni per me sono l'importante", continua. "E mi piace cambiarle, perché mi innamoro della loro ossatura non del risultato finale. Per quello mi impegno a rivestirle di nuova "ciccia" fino a farle diventare sempre piuttosto diverse."

Lei tende sempre a uscire dagli schemi... "Io amo l'improvvisazione, ma mi piacciono anche le piccole gabbie dentro cui mettere me stesso. Ad esempio suonare con un'orchestra che fa Ravel oppure seguire la trama di un dramma teatrale o la scaletta di un programma tv mi mettono in difficoltà ma insieme mi stimolano. Comunque non mi piacciono i puristi, perché il contrario di puro è sudicio: non è bello considerare tutti gli altri sporchi."
Perché il Fender Rhodes, una tastiera decisamente "vecchio stile"? "L'ho riscoperto casualmente in sala durante le registrazioni del disco di Irene Grandi. Lo consideravo solo uno strumento da gruppo, invece è molto vivo, ha una sua voce che ti permette di cantare con la destra e di accompagnare con la sinistra, e insieme di trovare delle voci interne con l'intensità della pressione del tasto."

Perché ha fatto tutto da solo? "Avevo queste canzoni che mi giravano in testa e poiché non mi piace tenere le idee nel cassetto ho cercato qualcuno che potesse cantarle. Non mi è venuto in mente nessuno e le ho registrate. Poi ho aggiunto le altre, cercando di ottenere un album il più variegato possibile."

Temi di peso per i suoi testi: l'invasione di altri da noi che stiamo subendo quotidianamente, la tecnologia che irreggimenta, l'inafferrabilità delle persone che ci sono vicine... "Gli alieni sono una metafora di gente che viene dall'esterno, non solo gli immigrati, ma i comunisti, i fascisti, le donne, gli arabi, i diversi da noi insomma, che non hanno sempre intenzioni bellicose o di cupidigia. Ce ne sono moltissimi che ragionano in un modo differente dal nostro, ormai quasi solo utilitaristico o di paura. La stessa paura che hanno spesso i genitori nei confronti dei figli: negli Usa vendono già dei microchip (da lì il titolo della simpatica canzone in napoletano, che ne richiama la tipica socialità ricorsiva, ndr.) per poterli controllare da casa. So che il futuro sarà questo oppure quello di "Minority Report", dove ti bloccano prima di commettere i delitti, mentre io vorrei commetterli e nemmeno essere beccato."