Politica
Charlie Hebdo, dieci anni dopo: da "Je Suis Charlie" al politically correct a ogni costo, la lezione mai appresa
Quello che è successo nella redazione di Charlie Hebdo non è stato solo un massacro, bensì un atto di guerra contro un’idea: la libertà di espressione. Il commento
Charlie Hebdo, dieci anni dopo il blitz nella redazione francese dobbiamo ricordarci che le uniche vere armi di una democrazia sono la satira, il pensiero critico e il diritto di essere scomodi
Dieci anni. Una decade di compromessi, di silenzi, di paure mascherate da prudenza. Dieci anni dalla mattina in cui Parigi – e con lei il mondo intero – ha pianto i suoi martiri della libertà. Il 7 gennaio 2015, i fucili d’assalto dei fratelli Kouachi non hanno solo ucciso dodici persone. Hanno cercato di annientare un principio: il diritto di dire ciò che pensiamo, anche quando urta, anche quando ferisce. Quello che è successo nella redazione di Charlie Hebdo non è stato solo un massacro. È stato un atto di guerra contro un’idea: la libertà di espressione, la spina dorsale di ogni democrazia degna di questo nome. Non si trattava solo di un attacco a un giornale satirico, ma a tutto ciò che rappresentava: il coraggio di sfidare i potenti, di smascherare l’ipocrisia, di ridere in faccia alla paura.
Libertà che oggi non solo i terroristi, ma anche le autorità e i famosi stakeholder, vuole essere messa al bando dalla dottrina del politically correct a ogni costo. Censura e autocensura si nascondono dietro un politically correct che ammutolisce ogni voce scomoda. La paura di offendere è diventata più potente del coraggio di dire la verità.
Forse che mutare linguaggio, attenuare ogni diversità, piegare a dismisura una verità è ormai esercizio stanco e inutile. Non è così che si misura la libertà, non è così che si tributa il doveroso omaggio a ogni persona e alle sue sensibilità. All’epoca eravamo tutti Charlie. Almeno per qualche giorno. Ricordate? I cartelli, le manifestazioni, i politici in prima fila – gli stessi che spesso censurano, reprimono, tacciono quando fa loro comodo. "Je suis Charlie" è diventato uno slogan globale, ma dieci anni dopo suona vuoto. Dove sono finiti quegli ideali? La sinistra, quella vera, quella che non si dovrebbe nascondere dietro vuoti slogan, che dovrebbe essere al fianco dei deboli, degli oppressi, degli ultimi; la sinistra che dovrebbe essere il primo baluardo della libertà di parola, dovrebbe gridare ogni momento “Je suis Charlie”. E invece, quante volte abbiamo visto piegarsi, cercare compromessi, giustificare l’ingiustificabile in nome del rispetto delle sensibilità? La verità è che senza libertà di espressione non c’è progresso, non c’è giustizia, non c’è sinistra.
Chi lavora nei media sa che oggi il nemico non è solo il terrorista con il Kalashnikov, ma anche il sistema che ci vuole mansueti, piegati. La satira è un’arma. La parola è un’arma. Ma non ci sono più Charlie Hebdo pronti a usarle fino in fondo. Ci sono giornalisti licenziati per una battuta, vignette censurate perché "troppo rischiose", opinioni zittite dai tribunali o da orde di indignati sui social. E mentre noi discutiamo di cosa sia "appropriato", il terrorismo ride.
Non hanno bisogno di sparare: abbiamo iniziato a censurarci da soli. Non dobbiamo dimenticare. Non possiamo dimenticare. I nomi di chi è morto quel giorno – Charb, Cabu, Wolinski, Tignous, Honoré – devono rimanere impressi non solo nella memoria, ma nelle nostre azioni quotidiane. Ricordare significa resistere. E resistere significa non arretrare mai, nemmeno di un millimetro.
Charlie Hebdo ha dimostrato che la libertà ha un costo, e quel costo è altissimo. Ma è un costo che vale la pena pagare. Se permettiamo al fanatismo, alla paura, al conformismo di vincere, allora non siamo solo complici. Siamo morti anche noi. Dieci anni dopo, il mondo è più insicuro, più fragile, più codardo. Ma la vera lezione di Charlie Hebdo è questa: la libertà non si negozia. Non con le pallottole, non con il potere, non con il conformismo. La satira, il pensiero critico, il diritto di essere scomodi: queste sono le armi di una democrazia. E allora smettiamola di essere Charlie solo quando conviene. Smettiamola di piegarci al politically correct, di giustificare le censure, di accettare che la paura governi le nostre parole. Essere Charlie significa non avere paura di nulla, nemmeno della verità. Siete davvero Charlie? Lo siete ancora a dieci anni di distanza? Dimostratelo.