Politica
Covid, Solinas ad Affari: "Passaporto sanitario? Tuteliamo la salute pubblica"
L'intervista al governatore della Sardegna Christian Solinas
Presidente Solinas, la sua decisione di consentire l’accesso in Sardegna solo a chi risulti di fatto immune dal Covid ha scatenato una serie di polemiche. Il Governo centrale con il ministro Boccia ha parlato di incostituzionalità manifesta, nel frattempo stanno insorgendo a contorno altre questioni legate a poca chiarezza da parte del Governo nella gestione di tutta questa faccenda. Il suo punto di vista?
"La Sardegna ha governato la prima fase dell’epidemia con misure, anche dure ma necessarie, che ci hanno portato ad avere una bassissima circolazione virale ed un numero decisamente contenuto di casi. Questo ci ha consentito di disporre anticipatamente rispetto al resto del Paese alcune riaperture e di non interrompere mai alcune produzioni industriali strategiche come la petrolchimica o la filiera della metallurgia non ferrosa. Ora, alle porte della stagione estiva, abbiamo proposto un modello per la ripresa della nostra industria turistica e del suo indotto, che per noi valgono il 14% del PIL. Il tema centrale è coniugare la nostra tradizionale offerta con l’esigenza di sicurezza sanitaria, che concorrerà a nostro avviso in modo determinante nella scelta della destinazione in un contesto di incertezze e paure legate alla pandemia. Molti mercati sono ancora chiusi, molte persone rinunceranno almeno per quest’anno alle vacanze: a livello globale si stima una contrazione consistente della domanda turistica. Per questo abbiamo lanciato l’idea di una Sardegna laboratorio del turismo sicuro, che consenta un soggiorno in serenità con la famiglia limitando al massimo il rischio di contagi. In questa congiuntura, la richiesta di una piccola cautela in più, nell’interesse di tutti, e cioè di esibire all’imbarco insieme ai documenti un certificato che attesti la propria condizione di negatività rispetto al Covid-19 ci pare una cosa assolutamente sostenibile e perfettamente legittima. Semmai abbiamo chiesto al Governo di fare la propria parte e rendere il più semplice ed economico possibile l’accesso dei cittadini ai test, magari chiarendo quali siano accreditati e rendendone la somministrazione libera nei laboratori, nelle farmacie o dai medici di famiglia di ogni città. Sulla incostituzionalità brandita dal Ministro ex art. 120 della Costituzione non vorrei fare polemiche sterili ma giusto chiarire che non si tratta di un problema di libera circolazione dei cittadini ma dell’esigenza di un corretto bilanciamento tra valori e diritti costituzionalmente garantiti, a partire dalla tutela della salute pubblica. Se un cittadino oggi in Italia è positivo al coronavirus, non per volontà del Presidente della Regione Autonoma della Sardegna ma per norme sanitarie nazionali, non può circolare da nessuna parte e deve essere ricoverato, se sintomatico, o tenuto in isolamento domiciliare per almeno 14 giorni e fino a quando non si negativizzi. Non si comprende in base a quale logica potrebbe invece venire in vacanza in Sardegna e dove sarebbe l’incostituzionalità di una misura di screening sanitario a presidio e tutela della salute pubblica".
Lei è intervenuto adesso sulla questione più legata al turismo. Che rischia da voi ed in Italia una grave crisi. Vi sono poi questioni più generali che riguardano linee di politica industriale che adesso in molti vanno invocando. La Sardegna ha qualche problema storico ma vista da Cagliari l’Italia dove si sta avviando?
"Credo che nella percezione consolidata vi sia l’insostenibile e oramai prolungata assenza di una politica industriale nazionale. Manca un’idea complessiva di sviluppo ed appare in tutta la sua insufficienza la gestione frammentaria di innumerevoli crisi aziendali che hanno cancellato interi comparti produttivi, facendo perdere competitività al Paese, occupazione e valore. Occorrerebbe un punto di svolta, la volontà e la capacità di indicare un percorso per individuare le produzioni strategiche sulle quali puntare ed attorno alle quali ricostruire le filiere. Siamo in un orizzonte europeo che ha tracciato il solco del green deal come riferimento ed impone quindi una riflessione sulle politiche energetiche, della sostenibilità e dell’economia circolare".
Lei è il segretario del Partito Sardo d’Azione ed è eletto con una coalizione di centrodestra. Questo nostro Paese non riesce a trovare pace, vede ad esempio la questione della magistratura in se preoccupante, la questione di riforme a lungo invocate e di fatto mai compiute. C’è il rischio di forti tensioni sociali. Da dove deve partire a Suo vedere il processo di riforma? Da quale riforma?
"Il mio è un osservatorio privilegiato per alcuni versi, perché si tratta di un partito che compirà 100 anni il prossimo aprile senza aver mai cambiato né nome né simbolo o rinnegato la propria storia ed i propri valori. Credo sia il più antico d’Italia e, forse d’Europa, ad essere ancora rappresentato attivamente e senza soluzione di continuità nelle istituzioni. Pensi che il PSd’Az è l’unico ad aver eletto con lo stesso simbolo propri rappresentanti nella Camera del Regno, all’Assemblea Costituente e nel Parlamento repubblicano oltreché, naturalmente, nel Consiglio regionale della Sardegna. Credo che il percorso delle riforme dovrebbe partire dall’acquisizione di una consapevolezza nuova delle diversità che costituiscono il Paese nel suo complesso. L’Italia non ha una storia statale unitaria antica e consolidata come la Francia o il Regno Unito, è uno stato giovane e composito. Ci sono percorsi storici, economici, sociali e politici molto differenti che sono stati ricuciti in un tempo relativamente breve, come se un capo d’abbigliamento fosse stato realizzato con pregiati ma diversi tessuti e pellami: non sarebbe possibile trattarlo in maniera uniforme, salvo pregiudicarne alcune parti a vantaggio di altre. Si immagini se usasse un prodotto specifico per le parti pelle: queste se ne gioverebbero senz’altro, ma altrettanto non si potrebbe dire per quelle in tessuto, che ne sarebbero invece danneggiate. Ecco, io sono convinto che le diversità siano la grande ricchezza ed il valore aggiunto del Paese ma abbiano bisogno di politiche opportunamente differenziate per esprimere a pieno il loro potenziale. Per questo la prima riforma dovrebbe rivedere l’architettura istituzionale della Repubblica, chiamando ad un nuovo patto costituente i territori e la società italiana nel suo complesso. Uscire dagli equivoci sulle competenze concorrenti tra centro e periferie, che troppo spesso hanno bloccato il sistema; ridefinire un nuovo equilibrio virtuoso tra poteri, ordini ed autonomie funzionali dello stato; declinare il principio di uguaglianza sostanziale dei cittadini attraverso la previsione di strumenti diversificati per territorio al fine di affermarla sul piano della concretezza e non della mera asserzione. Il lavoro, la libertà, l’uguaglianza, la felicità dei cittadini non si costruisce nello stesso modo a Cagliari e a Torino, a Palermo o a Trento: vi sono punti di partenza differenti, esigenze distinte che pretendono soluzioni complesse. Se dovessi pensare comunque ad un filo conduttore trasversale a tutte le riforme, credo che il lievito vero sia “il buon senso”, quello che ha ispirato la ricostruzione del Paese dopo la II Guerra Mondiale e che tanto ci è mancato negli ultimi lustri".
L’Unione Europea ha varato il Piano di aiuti ma di fatto esistono in generale delle condizionalità, che non sono per forza di cose negative perché nei fatti le riforme richieste assomigliano molto e forse sono di fatto la richiesta di un piano industriale per il Paese Italia. Da dove partire secondo Lei e cosa fare? Le tasse? La Giustizia? E dal punto di vista del lavoro cosa la politica seriamente può fare per far ripartire l’Italia posto che i posti di lavoro non si possono creare per decreto?
"Le politiche industriali ed economiche incidono decisamente anche sulla percezione e sulle propensioni dell’imprenditoria privata. L’assenza di chiarezza, di una prospettiva certa da parte del decisore pubblico deprime senza dubbio anche l’impresa. Si aggiungano i costi atavici di uno Stato che è in Italia il “socio occulto” di ogni azienda, a partire dalla pressione fiscale per arrivare all’eccesso di burocrazia, che rende insostenibili i tempi e soprattutto imperscrutabili gli esiti di una qualsiasi istanza o progetto. L’eccesso ed il disordine di una produzione normativa spesso dalla discutibile tecnica legislativa hanno finito poi per generare un livello di contenzioso assurdo, che rallenta la crescita e lo sviluppo. Occorrerebbe una radicale semplificazione: meno leggi e più organiche, testi unici ed una ridefinizione dei procedimenti amministrativi ispirata alla speditezza ed ai risultati. In piena rivoluzione digitale, in un tempo dove tutto corre a velocità impensabili noi continuiamo ad avere una pubblica amministrazione baroccheggiante, un potere interdittivo eccessivamente diffuso ed una dilatazione smisurata del penalmente rilevante in ambiti prettamente civilistici o amministrativi. Tutto questo non solo ha minato la competitività del sistema produttivo del Paese ma ha anche consolidato a livello internazionale un outlook negativo per gli investitori. E’ un circuito vizioso che si può rompere solo con una virata decisa, non sono sufficienti gli italici acconciamenti in attesa di un futuro migliore. E’ necessario che ci sia una classe dirigente in grado di assumere autorevolmente la guida del Paese con un disegno chiaro e comprensibile a livello internazionale, restituendo la fiducia ai mercati sull’affidabilità complessiva del sistema. Con queste premesse, si potrebbe affrontare un percorso riformista sulla fiscalità, sull’ordinamento giuridico nel suo complesso e sul mercato del lavoro, rilanciando fortemente la libertà d’impresa e immettendo sul mercato interno una forte iniezione di liquidità finalizzata ad un grande piano di infrastrutture materiali ed immateriali".
Il lavoro delle persone è un tema poco presente dal punto di vista pratico nel dibattito politico. Non crede che ai giovani e non solo a loro vada indicata una strada?
"Occorre una radicale riforma del ciclo formativo del capitale umano a partire dalle scuole primarie fino all’università ed ai percorsi post-doc, incentivando la ricerca come strumento inderogabile per competere a livello globale. Ma serve anche restituire dignità ai percorsi professionalizzanti ed al saper fare, perché immaginare una società di soli medici o avvocati o ingegneri è un’utopia perniciosa, perché genera una distorsione evidente che determina perdita di opportunità e di valore anche per quelle professioni. In alcuni Paesi esistono percorsi formativi paralleli all’università tradizionale, che professionalizzano e qualificano i lavoratori. Viviamo un tempo in cui il mercato richiede capacità e competenze certificate ed iper-specialistiche in ogni settore: noi continuiamo su un solco troppo generalista, che viene percepito in fin dei conti come generico. Ed abbiamo ampie zone del paese con tassi di dispersione scolastica allarmanti. Si dovrebbe offrire ai giovani la consapevolezza che il tempo della loro istruzione è il più grande investimento della propria vita, perché matura gli strumenti indispensabili a promuovere se stessi nel mercato del lavoro. Ma se lo stato poi non è in grado di mantenere questa promessa, perché anche chi ha studiato o si è formato vive la frustrazione di essere escluso dal circuito della produzione di reddito, è chiaro che le generazioni successive avvertiranno l’inutilità della scuola o dell’Università".
Parlando di politica estera presidente, uno dei punti di dibattito almeno sui giornali riguarda la troppa vicinanza che il nostro Paese avrebbe conseguito con la Cina. Lei cosa vede?
"L’Italia ha una tradizione diplomatica antica, addirittura preunitaria se guardiamo ai singoli stati della Penisola nel passato. I rapporti e le relazioni internazionali sono sempre stati un terreno ideale di confronto e mediazione, anche in ragione della presenza a Roma della Santa Sede. Se pensiamo a cosa abbiano rappresentato le Repubbliche Marinare in tema di commercio internazionale o le Corti Rinascimentali come crocevia non solo culturale del vecchio mondo, possiamo comprendere il peso di una storia cosi nobile e importante. In epoca più recente, l’Italia – dopo il secondo conflitto mondiale – pur nella adamantina scelta filoatlantica ha costruito un piccolo capolavoro diplomatico, agevolato dalla presenza del più grande Partito Comunista dell’Occidente, nel ritagliarsi un ruolo di confine e di “cerniera” tra le differenti sfere d’influenza, che le ha sempre consentito un dialogo tra due mondi per lungo tempo distinti e distanti. La caduta del muro di Berlino e la prorompente ascesa, soprattutto economica, della Cina come grande player mondiale in competizione con gli Stati Uniti e con la Russia propone oggi questioni nuove e complesse, soprattutto in assenza di una soggettività politica ed economica forte dell’Europa, che non riesce ad affermarsi come interlocutore unitario per una serie di errori nella costruzione istituzionale dell’UE ( troppo burocratica e poco popolare ) e di persistenti egoismi nazionali. Personalmente, credo che l’Italia debba rilanciare l’idea di una rigenerazione dell’Europa su basi popolari e regionali, superando l’approccio burocratico, bancario e monetario che la ha contraddistinta finora. Nel frattempo, con chiarezza e senza infingimenti deve confermare la sua alleanza storica con gli Stati Uniti d’America nel quadro del patto Atlantico. I rapporti commerciali con la Cina, che come da tradizione possono essere coltivati entro specifici accordi, non possono travalicare questo perimetro né tanto meno divenire organici ed esclusivi".
A Suo parere Presidente, per dirla con il Prof. Kupchan, chi sta governando il mondo? Chi lo governa?
"Il prof Kupchan ha proposto una riflessione interessante su come l’Occidente, per come lo abbiamo inteso nel secolo scorso, stia perdendo potere politico ed economico a vantaggio dei paesi emergenti. Io credo che il saldo del potere non sia invariato. Nel senso che se vi fosse stato un semplice trasferimento di potere da un gruppo di paesi ad un altro, ci sarebbe stata chiaramente una nuova leadership mondiale. Ma quello che oggi emerge, a mio avviso, è una transizione incompiuta, un disordine permanente nel quale nessuna leadership si afferma con chiarezza perché probabilmente, nel frattempo, è entrata in crisi la stessa nozione di Stato, fondata sul principio di supremazia. La globalizzazione ha polverizzato i confini, le distanze ed anche la necessità di mediazione dei rapporti internazionali. Le grandi multinazionali sono spesso più capitalizzate di alcuni stati e si muovono nel mondo dialogando direttamente con i cittadini/consumatori: sono nuovi players, che controllano una fetta importante delle risorse e delle ricchezze del Pianeta. I cittadini, oggi, non vedono più nello stato il garante dell’equilibro e della pace sociale ma un leviatano fiscale che non è più in grado di assicurare i servizi o il lavoro. Il rischio è che insorga la domanda: a che mi serve lo stato, se devo solo alimentarlo con le mie tasse senza averne indietro nulla? In un contesto simile torna di grande attualità una felice intuizione di John Elster, che nel suo bel saggio “Il cemento della società” si chiedeva cosa tenesse insieme il consesso civile. Una delle tesi sviluppate dimostrava che la carenza o l’eccesso di informazione generano di fatto un equilibrio e dunque tengono insieme. Oggi, probabilmente, l’eccesso di informazioni manipolate o l’assenza di informazioni esaustive sulle conseguenze di alcune scelte impediscono di fatto l’affermazione di una nuova leadership mondiale e tengono tutti in una perenne transizione verso un nuovo equilibrio, nella quale non si comprende più chi detti la linea. Per noi, in Italia, diviene comunque indispensabile ristrutturare immediatamente la funzione istituzionale dello stato, restituendole credibilità ed affidabilità in primo luogo nei confronti dei cittadini".
Vede un ruolo della Chiesa cattolica e delle religioni in questo necessario processo di ricostruzione del Paese e dell’Europa?
"Le religioni rappresentano da sempre un aspetto essenziale della vita dell’uomo, perché nel culto si proietta l’insopprimibile aspirazione di ciascuno a conoscere i misteri del creato e dare un senso all’esistenza. Non è pensabile una ricostruzione del Paese senza una rigenerazione profonda dell’individuo e dunque dell’identità collettiva di un intero Popolo. In questo, la Chiesa Cattolica in particolare, per noi, ha un ruolo fondamentale ed insostituibile, perché custodisce, aldilà della fede, la tradizione e la storia sociale, politica e culturale dell’Italia e dell’Europa. La dottrina sociale della Chiesa a partire dall’Enciclica Rerum Novarum di Leone XIII e come estesa ai problemi nuovi del mondo moderno da San Giovanni XXIII nella sua Mater et Magistra ha sempre delineato un orizzonte di impegno e testimonianza intorno ai concetti cardine dell’uomo, del lavoro e dello stato".