Politica

Renzi, Orlando e Davigo: la giustizia dei paradossi

di Antonio Giangrande

Le maldicenze dicono che gli italiani sono un popolo di corrotti e corruttori e, tuttavia, scelgono di essere giustizialisti e di stare dalla parte dei Magistrati. dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.

Sui media la Giustizia ha sempre un posto in primo piano nella loro personale scaletta, ma non sempre sono sinceri. Parliamo del premier Matteo Renzi che, in occasione del 25 aprile 2016, celebra la "liberazione" dai pm con una lunga intervista a Repubblica. Il nocciolo del suo pensiero è tutto raccolto in poche frasi: "I politici che rubano fanno schifo. E vanno trovati, giudicati e condannati. Dire che tutti sono colpevoli significa dire che nessuno è colpevole. Esattamente l'opposto di ciò che serve all'Italia. Voglio nomi e cognomi dei colpevoli. Una politica forte non ha paura di una magistratura forte. È finito il tempo della subalternità. Il politico onesto rispetta il magistrato e aspetta la sentenza. Tutto il resto è noia, avrebbe detto Califano. Adesso la priorità è che si velocizzino i tempi della giustizia".

Poi, invece, si legge che sono stati denunciati i pm del caso Renzi: "Omesse indagini sulle spese pazze". Depositata l'accusa contro i pm che hanno archiviato il caso delle spese di Renzi: "Non hanno voluto indagare", scrive Giuseppe De Lorenzo, Martedì 05/01/2016, su “Il Giornale”.

Parliamo del Ministro della Giustizia Andrea Orlando che parla, tra le altre cose, di riforma della Prescrizione. Andrea Orlando. Primo guardasigilli non laureato che nel 2010 gli è stata ritirata patente per guida in stato di ebbrezza, scrive Federico Altea su “Elzeviro” il 27 febbraio 2014. Quaranticinquenne, non ha mai toccato la giustizia in incarichi pubblici, ma è stato nominato responsabile in materia in seno alla direzione del partito di cui fa parte, nominato da Bersani di cui è fedele compagno nella corrente nei Giovani turchi. In un'intervista al Foglio si disse favorevole al carcere duro. Non è di un politico "esperto" né di un tecnico intrallazzato che il dicastero della giustizia ha bisogno, ma di un giurista serio che conosca e riformi completamente il sistema penale e civile e restringa il più possibile la facoltà dei giudici di interpretare a loro piacimento il sistema giuridico. Una persona che abbia le competenze per riformare il sistema penitenziario. Andrea Orlando, sempre parlando di competenze in ambito di Giustizia o giuridiche in senso lato, non solo non ha la laurea in giurisprudenza, ma non ha ottenuto un diploma di laurea di alcun genere. Nella storia della Repubblica italiana è la prima volta che il Ministero della Giustizia viene affidato ad un non laureato. Tutti i trentatré predecessori di Orlando, infatti, erano laureati e ben ventisette guardasigilli erano laureati giurisprudenza. Da questo c’è da desumere che possa pendere dalle labbra degli esperti e tecnici interessati.

Parliamo delle toghe. Diceva Piero Calamandrei: “L’avvocato farà bene, se gli sta a cuore la sua causa, a non darsi l’aria di insegnare ai giudici quel diritto, di cui la buona creanza impone di considerarli maestri”. “I magistrati - diceva ancora Calamandrei - sono come i maiali. Se ne tocchi, uno gridano tutti. Non puoi metterti contro la magistratura, è sempre stato così, è una corporazione". Il giudice rappresenta il funzionario dello Stato, vincitore di concorso all’italiana, cui è attribuito impropriamente il Potere dello iuris dicere. Ossia di porre la parola fine ad una controversia, di attribuire ad uno dei contendenti il bene della vita conteso nel processo giurisdizionale, di iniziare e/o far finire i giorni della vita di un cittadino in una struttura penitenziaria. Il giudice è per sé stesso “un’Autorità”: ossia un Pubblico Ufficiale. L’avvocato, invece, non lo è. La considerazione è così banale, tanto è ovvia. L’avvocato è solo un esercente un servizio di pubblica necessità, divenuto tale in virtù di un criticato esame di abilitazione.

Il processo non può essere mai giusto, come definito in Costituzione, se nulla si può fare contro un magistrato ingiusto giudicato e giustificato dai colleghi, ovvero se in udienza penale l’avvocato si scontra contro le tesi dell’inquirente/requirente collega del giudicante.

La magistratura in Italia: ordine o potere? Secondo la classica tripartizione operata dal Montesquieu, i poteri dello Stato si suddividono in Potere legislativo spettante al Parlamento, Potere esecutivo spettante al Governo e Potere giudiziario spettante alla Magistratura. Questo al tempo della rivoluzione francese. Poi il diritto, per fortuna, si è evoluto. In Italia la Magistratura non può in nessun caso esercitare un potere dello Stato (Potere, nel vero senso della parola), infatti per poter parlare tecnicamente di Potere, e quindi di imperium, è necessario che esso derivi dal popolo o, come accadeva nei secoli passati, da Dio. Nelle moderne democrazie occidentali il concetto di potere è strettamente legato a quello di imperium proveniente dalla volontà popolare, quindi è del tutto pacifico affermare che gli unici organi – seppur con tutte le loro derivazioni – ad essere legittimati ad esercitare un Potere sono soltanto il Parlamento (potere legislativo) ed il Governo (potere esecutivo). In effetti l’art. 1 della Costituzione, nei principi fondamentali, recita: “La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”. Per rendere chiaro il concetto è sufficiente comprendere che nel momento in cui il Parlamento ed il Governo esercitano i propri poteri, lo fanno “in nome” e “per conto” del popolo da cui ne deriva l’investitura, quindi la Magistratura non può essere in alcun modo considerata un potere – in senso stretto – dello Stato; essa è solo un Ordine legittimato ad esercitare – “in nome” del popolo e non anche per conto di questo – la funzione giurisdizionale nei soli spazi delineati dalla Costituzione e, soprattutto, nel fedele rispetto della legge approvata dai soli organi deputati ad adottarla, quindi dal Parlamento e dal Governo, seppur quest’ultimo nei soli casi tassativamente previsti dalla Carta costituzionale. A dimostrazione di quanto premesso, la nostra Costituzione – della quale i giudici si dichiarano spesso i soli difensori – parla, non a caso, di Ordine Giudiziario e non di Potere. Difatti il Titolo Quarto della Carta costituzionale riporta scritto a chiare lettere, nella Sezione Prima, “Ordinamento giurisdizionale”, e non Potere; e a fugare ogni dubbio ci pensa l’art. 104 Cost.: “La magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere…”. Di questo, però, la sinistra politica non se ne capacita, continuando ad usare il termine Potere riferito alla magistratura, smentendo i loro stessi padri costituenti. Se fino alla fine degli anni Ottanta, quando vi erano veri politici a rappresentare il popolo, questo tipo di discussione non era neppure immaginabile, a partire dal 1992 – vale a dire da quando è iniziato un periodo di cronica debolezza della politica, ovvero quando la politica ha usato l’arma giudiziaria per arrivare al potere – la Magistratura ha cercato (come quasi sempre è accaduto nella Storia) di sostituirsi alla politica arrivando addirittura ad esercitare, talune volte anche esplicitamente, alcune prerogative tipiche del Parlamento e del Governo: un vero colpo di Stato. Non possiamo dimenticarci quando un gruppo di magistrati – durante il cosiddetto periodo di “mani pulite” – si presentò davanti alle telecamere per contrastare l’entrata in vigore di un legittimo – anche se discutibile – Decreto che depenalizzava il finanziamento illecito ai partiti (il cosiddetto Decreto Conso), violentando in tal modo sia il principio di autodeterminazione delle Camere che l’esercizio della sovranità popolare. E che dire della crociata classista, giacobina e corporativa racchiusa nelle parole “resistere, resistere, resistere…”! E poi i magistrati con la Costituzione tra le braccia al fine di ergersi ad unici difensori della stessa contro presunti attacchi da parte della politica. E che dire, poi, di alcune sentenze della Corte di Cassazione? Nascondendosi dietro l’importantissima funzione nomofilattica, la Suprema Corte spesso stravolge sia l’intenzione del Legislatore che il senso e la portata delle leggi stesse, se non addirittura inventarsi nuove norme, come per esempio "il concorso esterno nell'associazione mafiosa": un reato che non esiste tra le leggi. Per non parlare, poi, della mancata applicazione della legge, come quella della rimessione del processo in altri fori per legittimo sospetto di parzialità. Spesso la Magistratura si difende affermando di non svolgere nessuna attività politica, ma si smentisce perché all’interno del Consiglio Superiore della Magistratura ci sono delle vere e proprie correnti. Ma le correnti non sono tipiche dei partiti politici? E poi, per quale motivo gli organi rappresentativi dell’associazione nazionale magistrati vanno di frequente in televisione per combattere la crociata contro un qualsiasi progetto di riforma della giustizia che investa anche l’ordine giudiziario? E perché, questi stessi, i più animosi tra le toghe, inducono i politici a loro vicini ad adottare leggi giustizialiste ad uso e consumo della corporazione? Ma i magistrati non sono tenuti soltanto ad applicare le leggi dello Stato? Per quale ragione alcuni magistrati, pur mantenendosi saldamente attaccati alla poltrona di pubblico ministero o di organo giudicante, scelgono di fare politica, arrivando addirittura a candidarsi alle elezioni senza avere neppure la delicatezza di dimettersi dalle funzioni giudiziarie?

Parliamo infine delle vittime della malagiustizia. Si parla poco, ma comunque se ne parla, inascoltati, del problema degli errori giudiziari e delle ingiuste detenzioni, così come della lungaggine dei processi. Così come si discute poco, ma si discute, inascoltati, del problema dei risarcimenti del danno e degli indennizzi, pian piano negati. Delle vittime della malagiustizia si parla di un ammontare di 5 milioni dal 1945. Ogni anno in Italia 7 mila persone arrestate e poi giudicate innocenti. Almeno a guardare i numeri del ministero della Giustizia. Dal 1992 il Tesoro ha pagato 630 milioni di euro per indennizzare quasi 25 mila vittime di ingiusta detenzione, 36 milioni li ha versati nel 2015 e altri 11 nei primi tre mesi del 2016. Queste vittime della malagiustizia li vedi, come forsennati, a raccontare perpetuamente sui social network, inascoltati, le loro misere storie. Sono tanti, come detto 5 milioni negli ultimi 60 anni. Poi ci sono i parenti e gli affini da aggiungere a loro. Un numero smisurato: da plebiscito. Solo che poi si constata che in effetti nulla cambia, anzi si evolve, con ipocrisia e demagogia, al peggio, spinti dai media giustizialisti che incutono timore con delle parole d’ordine: “Insicurezza ed impunità. Tutti dentro e si butta la chiave”. Allora vien da chiedersi con un intercalare che rende l’idea: “Ma queste vittime dell’ingiustizia a chi cazzo votano, se vogliono avere ristoro? Sarebbe il colmo se votassero, da masochisti, proprio i politici giustizialisti che nelle piazze gridano: onestà, onestà, onestà…consapevoli di essere italiani, o che votassero i politici giustizialisti che, proni e timorosi, si offrono ai magistrati. Quei magistrati che ingiustamente hanno condannato o hanno arrestato le vittime innocenti, spinti dalla folla inneggiante e plaudente, disinformata dai media amici delle toghe! Sarebbe altresì il colmo se le vittime innocenti votassero quei politici che stando al potere non hanno saputo nemmeno salvare se stessi dall’ingiusta gogna.

Se così fosse, allora, cioè, si fosse dato un voto sbagliato a destra, così come a sinistra, con questo editoriale di che stiamo parlando?

dr. Antonio Giangrande

Scrittore, sociologo storico, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie