Politica
Referendum, Zaccaria: "Rischiamo uno sbilanciamento dei poteri"
Intervista al Prof. Roberto Zaccaria. Ecco perché voterà No
«Semplificazione? Col nuovo sistema introdotto, piuttosto, si complicano le cose». I rischi della riforma Boschi, per Roberto Zaccaria, ordinario di Istituzioni di Diritto pubblico all’Università di Firenze, già presidente Rai dal 1998 al 2002 e firmatario dell’appello per il No insieme ad altri Costituzionalisti, sono diversi. Li spiega in un’intervista ad Affari Italiani.
Professore, gli argomenti cruciali del Sì, in sostanza, sono due. Primo: aspettiamo la riforma da 30 anni, o si cambia adesso oppure si resta fermi. Ora o mai più. Secondo: chi si oppone è contrario al cambiamento e vuole difendere lo status quo. Non è d’accordo?
«E’ una lettura sbagliata. Non si affronta così un discorso attorno alla Costituzione. Che è la casa comune: cioè il luogo in cui tutti dovrebbero riconoscersi. Quando si procede con maggioranze ristrette e con una forte divisione del Paese non ci sono le condizioni per apportare un cambiamento che poi inciderà per molti anni. Inoltre, la Carta è già stata modificata diverse volte in singole sue parti, o attualizzata attraverso la giurisprudenza della Corte costituzionale. Non si può dire che in Italia ci sia una Costituzione statica. E poi: in questa riforma si mette troppa carne al fuoco. Per consentire ai cittadini di potersi esprimere correttamente ci vorrebbero quesiti omogenei, mentre invece abbiamo quesiti molto eterogenei. E’ una revisione troppo ampia perché ci sia un’adeguata consapevolezza della materia».
Tra i punti forti del Sì c’è anche l’abbattimento dei costi della politica.
«Sarebbe un punto forte se avesse un’efficacia, un valore. Se tante persone lo ripetono contemporaneamente non vuol dire che ne assuma. In verità speravo sarebbe stato tolto dalla campagna elettorale. Fonti autorevoli hanno ben spiegato che il risparmio della riforma si aggira intorno ai 50 milioni di euro all’anno. Per ottenerne di più alti, sarebbe stato più semplice ridurre proporzionalmente Senato e Camera. Anche se bisogna stare sempre attenti: una cosa sono i costi della politica, e un’altra quelli della democrazia. Togliere completamente le indennità ai parlamentari, anziché ridurle, significherebbe mettere in mano la politica ai ricchi. Una prospettiva pericolosa».
Per tornare a una formula ormai abusata: abbiamo avuto 63 governi in 70 anni di Repubblica. E la riforma promette maggiore governabilità. Al Paese non serve?
«Quella dei 63 governi è un’analisi puramente statistica. I politologi guardano alle fasi della storia italiana. Ai tempi del centrismo c’è stato più di un governo. La maggiore stabilità l’abbiamo avuta in quegli anni lì, con uno sviluppo economico enorme. Di recente, al contrario, abbiamo avuto governi più longevi ma con indici di sviluppo in negativo o dello 0,2. Non facciamoci ingannare dal numero. Periodi unitari hanno avuto più governi. L’Italia non è un Paese instabile per definizione: ci sono state, nelle alternanze al potere, soluzioni politiche equivalenti».
Ma con la riforma ci sarebbe un eccessivo accentramento? Verrebbero indeboliti, cioè, gli organi di garanzia, Presidente della Repubblica, Corte costituzionale e CSM?
«Nel disegno della forma di Governo si tratta di bilanciare due elementi fondamentali: la rappresentanza, cioè sovranità, voto popolare e riconoscibilità di quest’ultimo nel Parlamento; e poi appunto la governabilità. Con la riforma, nel suo complesso, corriamo un pericolo: c’è uno sbilanciamento a favore della governabilità. E sostanzialmente, si schiaccia la rappresentanza. C’è un fortissimo premio di maggioranza e c’è un numero elevatissimo di nominati dai partiti e non eletti».
Anche se l’Italicum venisse modificato?
«Non è una domanda lecita, per me. Mi spiego: oggi ci troviamo in una situazione in cui l’Italicum è quello che è. Se ci fosse stata la volontà di cambiarlo lo si sarebbe già fatto. Quando andremo a votare non possiamo farlo pensando a una possibile modifica, di cui si legge e si sente parlare. Lo dico con grande chiarezza: bisogna giudicare riforma e legge elettorale insieme. E lo squilibrio che si creerebbe in questo senso è vistoso. Uno squilibrio che inciderebbe sui ruoli degli altri poteri. Sul Parlamento, senza dubbio più debole perché il Governo lo controllerà attraverso la maggioranza. Sulla Corte Costituzionale, perché il Parlamento in seduta comune a prevalenza della Camera eleggerà tre giudici con una certa facilità. Così come sul CSM. Sul Presidente della Repubblica, poi, la questione è delicata. Primo: chi sarà eletto la sera delle elezioni si imporra sul Presidente, che non avrà la possibilità di scegliere l’incaricato ma dovrà di fatto recepire il risultato elettorale. Inoltre, il meccanismo di elezione del Presidente apparentemente alza il quorum ma in realtà rischia di abbassarlo: quindi ci avvicineremo a una cifra molto vicina alla maggioranza uscita dalle urne. Questo è importante: non dico che il Governo si sceglierà il Presidente della Repubblica, ma che la sola maggioranza, nel Parlamento in seduta comune, si avvicinerà ad avere i numeri per farlo, specie se ci fossero delle assenze. Insomma: con la Riforma il potere esecutivo rischia di dominare gli altri».
Lei si occupato anche di par condicio. C’è un’ingerenza eccessiva del Governo in Tv sul fronte del dibattito referendario?
«Domando io a lei: se pensa al Sì, chi è il primo testimonial che le viene in mente?»
Matteo Renzi.
«Il Presidente del Consiglio. E’ semplice, senza essere specialisti. In questo periodo, in tutti i giorni di festa, quando le persone stanno a casa, il Presidente del Consiglio è in Tv con spazi enormi. L’unica par condicio rispettata è nei telegiornali, dove in maniera decisamente confusa si sente un po’ di Sì e un po’ di No. Quella è una par condicio finta: 15, 18, 22 secondi fatti di slogan veloci. C’è in par condicio, invece, nei programmi dove si dà più spazio di parola, con una presenza del Governo abnorme. E’ molto grave».
Si sente spesso affermare: con la Riforma avremmo un’Italia più veloce, più moderna. Con istituzioni al passo con i tempi e un iter legislativo snellito. Una promessa di semplificazione che non condivide?
«Col tanto vituperato bicameralismo basta guardare quanto tempo è stato impiegato per far passare la legge Fornero (19 giorni, Ndr). O in quanto tempo il Parlamento ha approvato la legge di Stabilità, la più imponente del nostro ordinamento statale: 48 giorni, in 3 letture, di cui l’ultima con circa 1000 commi. Di che cosa stiamo parlando, allora? Col nuovo sistema, piuttosto, si complicano le cose. Il Paese più veloce che si creerebbe con la riforma è un racconto che non corrisponde alla realtà. Oggi c’è molta velocità e si fanno delle leggi anche sbagliate. Domani, invece, le leggi potrebbero essere fatte dalla sola Camera col rischio di essere meno meditate ma con la sicurezza che i plurimi procedimenti disegnati dall’art. 70, dall’art.72 e dall’art. 77 penalizzino la velocità dell’iter legislativo. Servono leggi migliori: ma questo è un discorso valido sempre, diverso dalla questione costituzionale. Si sa: solamente quando c’è l’accordo politico si fa tutto più rapidamente».