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Non solo Luis Suarez: un secolo di storie curiose di calciatori e passaporti
La nazionale azzurra ha schierato numerosi "oriundi", da Sivori a Camoranesi, ma la Germania e (soprattutto) la Francia si sono spinte anche oltre
di Lorenzo Zacchetti*
Comprensibilmente, il caso della cittadinanza italiana ottenuta da Luis Suarez sta suscitando numerose polemiche. Lasciamo che la giustizia faccia il suo corso e per il momento sospendiamo il giudizio sulle “scorciatoie” che, secondo l'ipotesi accusatoria, sarebbero state messe a disposizione dell'uruguagio. Restano comunque due temi ineludibili. Il primo è l'inaccettabile disparità tra chi ottiene il passaporto grazie a parentele lontane o acquisite e chi invece, pur essendo nato sul suolo italico, è costretto a lunghe ed estenuanti attese. Una legge sullo Ius Soli permetterebbe di andare oltre le tante contraddizioni vigenti con lo Ius Sanguinis, ma finché l'attesa riforma non diventerà realtà aspettiamoci altre accese discussioni tra tifos: nel calcio, le cose vanno così da un secolo! Ed è proprio questo il secondo tema sollecitato dalla vicenda-Suarez.
Risale infatti agli anni Venti del Novecento il primo incrocio strutturale tra pallone e politica. Fu il regime fascista il primo a capire come il pallone fosse lo strumento ideale per cementare quel sentimento nazionale che, nel Paese dei campanili, non è mai stato scontato. Con lungimiranza, Benito Mussolini affidò il tema al gerarca Leandro Arpinati, piazzato alla presidenza della Figc. Fu lui a unificare il campionato nazionale, precedentemente diviso tra Nord e Sud, dando vita alla Serie A come la conosciamo oggi. Subito dopo, chiuse le frontiere ai calciatori stranieri, ma inventandosi la scappatoia degli “oriundi”, quelli che Mussolini preferiva chiamare “rimpatriati” per esaltare la gloria della “razza italica”.
Grazie a lontanissime (e talvolta fantasiose) parentele, il campionato italiano arruolò giocatori sudamericani come Raimundo “Mumo” Orsi, argentino di Avellaneda che militava nell’Independiente e che divenne l’ala sinistra non solo della Juventus, ma anche della nazionale italiana, sorvolando sul palpabile imbarazzo per il fatto che avesse appena disputato le Olimpiadi con la casacca albiceleste. Con le sue 8.000 lire mensili di ingaggio, Orsi divenne il calciatore più pagato del mondo e l’oggetto dell’invidia dei lavoratori italiani, in un periodo nel quale Gilberto Mazzi spopolava cantando “Se potessi avere mille lire al mese”.
Tra gli azzurri che nel 1934 vinsero il mondiale organizzato da Mussolini, c’erano altri tre argentini: Luisito Monti detto “el Verdugo” (“il boia”), Enrique Guaita detto “il Corsaro Nero” ed Attilio De Maria. Quattro anni dopo, il bis iridato a Parigi arrivò anche grazie all’inserimento in squadra di Michele Andreolo, uruguagio proveniente proprio dal Nacional. Prima di loro, in maglia azzurra aveva giocato il leggendario bomber Renato Cesarini, che dopo aver rappresentato la natia argentina venne naturalizzato in contemporanea con i cinque scudetti vinti consecutivamente con la Juventus e, soprattutto, con i gol nei minuti finali che fecero nascere il marchio di fabbrica “zona Cesarini”. Il paraguaiano Attila Sallustro, idolo dei tifosi napoletani sessant’anni prima di Maradona, esordì nella nazionale italiana a 21 anni, ma poi non fece parte del gruppo due volte campione del mondo perché Pozzo gli preferì Peppino Meazza. Giustamente.
Negli anni Trenta, gli oriundi facevano la differenza anche nel Bologna “che tremare il mondo fa”, una squadra che, anche beneficiando del suo solido legame con il gerarca fascista Arpinati, riuscì a vincere quattro scudetti e due coppe Mitropa, competizione che prima di essere riservata alle vincitrici dei campionati di seconda divisione fu l’antesignana della coppa dei Campioni. Pur dovendo rappresentare, nelle intenzioni del duce, la superiorità italiana, la formazione rossoblu era stata forgiata dall’ebreo ungherese Arpad Weisz secondo i dettami del “Metodo” danubiano e a centrocampo schierava un terzetto di puro sangue uruguagio, formato dal già citato Andreolo nel ruolo di mediano e da Francisco Fedullo e Raffaele Sansone come mezze ali. Gianni Brera descrisse l’importanza dei tre latinoamericani in questo modo: “Il punto debole del vivaio italiano era sempre stato il centrocampo: generalmente chi vi si specializzava non aveva sufficiente stile o, se ne aveva, non era in condizioni di reggere sul piano atletico. Fedullo e Sansone erano due abili ruminanti della palla: correvano, al loro ritmo ottimo, cioè piano, dal primo all’ultimo istante, tenevano a piacimento la palla duettando dalle soglie della propria area all’area avversaria, aspettavano le ali e corricchiando sullo slancio andavano ad aspettare che l’azione si svolgesse con l’immancabile cross, magari per rientrarvi a loro volta e concludere da poco fuori. Alle spalle di Fedullo e Sansone giganteggiava Andreolo, ottimo negli stacchi acrobatici, puntuale negli incontri e quasi in tutto degno di Luis Monti nei lunghi rilanci”. Nel 1938 il Bologna si rafforzò ulteriormente grazie all’arrivo dell’attaccante uruguagio Ettore Puricelli, detto “testina d’oro” per le sue doti nel gioco aereo, che dopo essere cresciuto nel Liverpool di Montevideo e nel Central Español finì col giocare anche nella nazionale italiana.
L’epopea degli oriundi ripartì di slancio a metà degli anni Cinquanta, quando ad essere naturalizzati furono due autentici fenomeni quali Alcide Ghiggia e Juan Alberto “Pepe” Schiaffino, stelle dell’Uruguay campione del mondo nel ’50. Il secondo trionfo iridato dalla celeste, dopo quello dell’edizione inaugurale nel ’30, si accompagna alla più dolorosa disfatta nella storia del calcio brasiliano, passata alla storia come “El Maracanazo”, ovvero il “disastro del Maracanà”.
In maglia azzurra, gli oriundi tornarono in voga negli anni Sessanta, quando la nazionale italiana si avvalse di personaggi illustri come Omar Sivori, Antonio Angelillo, Josè Altafini, Miguel Montuori, Humberto Maschio e Angelo Sormani, sfruttando radici italiche quantomeno remote. Con le sue sette presenze, il brasiliano Sormani (pomposamente soprannominato “il Pelè bianco”) è stato l’ultimo giocatore naturalizzato prima di una pausa durata quasi quarant’anni. Ad interromperla, nel 2003, è stato Mauro German Camoranesi, palesemente sudamericano sin dalla tipica incostanza di rendimento e di temperamento che lo ha sempre caratterizzato. L’argentino di Tandil, che Trapattoni ha voluto vestire di azzurro per colmare il vuoto rimasto nel ruolo di ala destra dopo l’epopea dei grandi Franco Causio, Bruno Conti e Roberto Donadoni, venne criticato perché non cantava l’inno nemmeno al mondiale di Germania 2006 e in maniera decisamente eloquente rispose: “L’inno di Mameli non lo so… figuratevi che non mi ricordo nemmeno il mio, quello argentino!”.
Delle quattro coppe del mondo conquistate dalla nazionale azzurra, quindi, tre sono arrivate anche grazie al concreto contributo di calciatori diventati italiani solo grazie alla burocrazia e non sempre in modo limpido. Volendo sottilizzare, anche nel trionfo del 1982 hanno inciso le prestazioni di un azzurro nato all'estero, visto che Claudio Gentile ha visto la luce nell’ex colonia italiana di Tripoli, in Libia, e per questo era stato soprannominato “Gheddafi”.
Il fenomeno degli oriundi non è certo specifico del calcio italiano, visto che la questione negli ultimi anni ha riguardato diverse nazioni e in alcuni casi in misura molto più rilevante che da noi, soprattutto con riferimento a paesi di tradizione colonialista quali Olanda, Francia e Inghilterra, nelle cui rappresentative hanno giocato diversi atleti con origini esotiche. Gli europei del 2008 hanno rappresentato una tappa fondamentale nella storia degli atleti utilizzati come rappresentanti di un Paese diverso da quello dove sono nati, con scene decisamente particolari come quella di Lucas Podolski, che non ha esultato dopo aver segnato due gol alla Polonia, sua terra natia, indossando la maglia della Germania. L’attacco della “Mannschaft” annoverava anche un altro polacco come Miroslav Klose, lo spagnolo Mario Gomez, l’italo-svizzero Oliver Neuville e il cittadino del mondo Kevin Kuranyi (che nelle vene ha sangue brasiliano, ungherese e panamense), mentre a centrocampo c’era un terzo polacco, ovvero Piotr Trochowski! Nel Portogallo c’era il brasiliano Deco, che per ironia della sorte ha esordito nella nazionale lusitana proprio contro la Seleçao, mentre la Turchia schierava Mehmet Aurelio, nato a Rio de Janeiro, e la Polonia il paulista Roger Guerreiro. Detto di Olanda e Francia, come sempre caratterizzate da un ricco campionario di etnie, nella Romania si è segnalata la significativa presenza di Banel Nicolita, il primo rom nella storia della competizione.
Dopo il flop azzurro al mondiale del 2010, il nuovo c.t. Cesare Prandelli è ripartito dalla lungamente attesa naturalizzazione del brasiliano Amauri, che ha riacceso le speranze di giocatori come Felipe e Thiago Motta, in possesso di doppia cittadinanza così come l’argentino Pablo Daniel Osvaldo, che nel 2007 ha esordito nella rappresentativa Under 21. Nel marzo 2010, gli azzurrini hanno affrontato l’Ungheria schierando ben quattro oriundi: Ezequiel Schelotto, Angelo Ogbonna, Stefano Okaka e Mario Balotelli. La pelle scura degli ultimi tre ha rilanciato un tema che non veniva trattato da quando nella nazionale maggiore erano stati utilizzati Fabio Liverani e Matteo Ferrari, italianissimi eppure “colored” per via delle loro origini familiari. Ovviamente, la questione ha assunto significati contrastanti nell’interpretazione dei politici. Andrea Sarubbi, che da deputato del Partito Democratico è stato promotore di una riforma della legge sulla cittadinanza, ha definito la coppia Okaka-Balotelli “un fantastico attacco di seconda generazione. Rappresenta quello che già avviene da tempo nelle scuole, negli oratori e per le strade del nostro Paese. Chi continua a chiudere gli occhi di fronte a tutto questo e dice no al futuro multietnico per l’Italia ha ragione: il futuro, infatti, è adesso”.
Opposta la lettura di Mario Borghezio, esponente della Lega Nord (allora si chiamava così), che dopo aver definito i tre azzurri di colore “un’espressione della nuova società multirazziale”, ha aggiunto: “Io penso che, quando un giorno non lontano, ci sarà una nazionale padana ufficiale, i giocatori saranno tutti padani”. Curiosamente, per bocca di Matteo Salvini, la Lega ha cambiato posizione cinque mesi dopo, quando Balotelli ha esordito nella nazionale maggiore, accanto ad Amauri: “Sono contrario agli oriundi, ma Mario in questo discorso non c’entra, perché è italiano”.
Oltre un decennio dopo, la situazione non solo non è migliorata, ma al contrario si è invelenita in seguito all’incapacità da parte del Parlamento di approvare una convincente legge di riforma del diritto di cittadinanza e, soprattutto, alla recrudescenza del razzismo sulla quale le recenti politiche delle destre – fondate sulla paura del “diverso” – hanno certamente alcune responsabilità.
In un mondo reso progressivamente più piccolo dalla crescente facilità degli spostamenti e dalla globalizzazione dell’economia, la riforma ha interessato un numero sempre maggiore di calciatori e squadre nazionali, mettendo a rischio il concetto stesso di “rappresentatività”. Nella marcia di avvicinamento al mondiale del 2010, le numerose polemiche esplose sull’argomento hanno indotto il c.t. Lippi ad un significativo distinguo: “Fino all’ultimo momento seguirò tutti i giocatori a disposizione, ma onestamente gli oriundi un po’ meno: mi bastano già gli italiani”. Mi è capitato di intervistare Amauri proprio in concomitanza dell’esternazione del suo desiderio di vestire la maglia azzurra e gli ho manifestato la mia contrarietà: non ho elementi per giudicare la sincerità della sua affermazione “mi sento italiano”, ma sono convinto che il suo sentimento patrio si sarebbe notevolmente affievolito se Dunga lo avesse convocato nella Seleçao, così come probabilmente Camoranesi non avrebbe mai dovuto chiedersi chi fosse Mameli se gli fosse stata data un’opportunità di vestire la maglia dell’Argentina.
Al di là dei casi singoli, il problema sta nella facilità con la quale si può ottenere una seconda cittadinanza (mentre si rifiuta tale diritto a chi chiede la prima essendo nato nel nostro Paese!) e, conseguentemente, una ghiotta opportunità di ottenere un miglioramento professionale giocando per una nazione diversa da quella di nascita, ma nel quale si è evidentemente più apprezzati.
*autore di "Cambiare il mondo con un pallone - Da Nelson Mandela a Megan Rapinoe, da Diego Maradona a Che Guevara: quando in gioco c'è l'identità" (Ledizioni)