Coronavirus
AstraZeneca oggi come Sabin ieri: storia di un vaccino demonizzato
Vaccini, frigoriferi campagna di massa nei primi anni 60 contro la mortale poliomielite. La storia della malattia sconfitta in Italia con il vaccino Sabin
Ministro della Sanità era il socialista Giacomo Mancini (1916-2002), il virus quello della poliomielite, che provocava la paralisi degli arti e colpiva i bambini tra 0 e 5 anni, si trasmetteva con il cibo, l’acqua e quelle, che oggi sono il nostro incubo: le droplets, le goccioline di saliva. L’emergenza, la scoperta del vaccino, i ritardi, nella campagna di immunizzazione, in Italia, i no vax ante-litteram e persino la logistica sui frigoriferi sono molto simili ai fatti di oggi. La prima, grande ondata, in Italia, si registra già negli anni tra il 1938 e il 1939, ne fu vittima anche la figlia di Mussolini, Anna Maria, a 7 anni. E all’illustre malata si deve la prima legge di assistenza ai poliomielitici, nel 1940. La malattia non scompare nel dopoguerra, anzi prolifica. Soprattutto nel Sud Italia, a causa delle precarie condizioni igieniche.
Nel 1950 la ricerca scopre il vaccino di Jonas Salk. I risultati non sono brillanti. Sono troppi i casi di vaccinati, che finiscono sulle carrozzine. L’Italia, con molto ritardo, adotta quel vaccino. E alle carenze di base si aggiungono le deficienze di un sistema sanitario non ancora attrezzato alla vaccinazione di massa. Molti lotti (all’epoca si definivano partite) di vaccini si deterioravano, per la cattiva conservazione, nessuno punta su una campagna di massa, che possa immunizzare i giovani, che sono le principali vittime. Nel 1952 l’equipe del dottor Albert Bruce Sabin (1906-1993), polacco, cittadino USA, trova la svolta per un vaccino veramente decisivo. Coltivando virus-polio vivi attenuati, si producono gli anticorpi necessari a sconfiggere il terribile male. Il vaccino di Salk si inietta nel sangue, impedendo al virus di raggiungere i centri nervosi dell’organismo. Il Sabin, invece, viene fornito con uno zuccherino, per via orale. Non solo è più semplice da somministrare e da gestire, ma soprattutto affronta il virus nell’intestino dove, subito, si manifesta.
Il virologo si presenta alla stampa, annunciando la “riuscita matematica” del suo ritrovato. Tempo un anno e gli Stati Uniti approvano il siero e rilasciano la licenza commerciale. L’Unione Sovietica e i Paesi del Patto di Varsavia adottarono, sebbene fossero i tempi della guerra fredda, una vaccinazione di massa del Sabin antipolio, senza barriere ideologiche. Alla fine del 1959, 77 milioni di sovietici, tra i 2 e il 20 anni, sono immunizzati. Negli Usa, si vaccina con il Sabin, per strada e nei supermercati. I Paesi occidentali si adeguano, anche Israele e Singapore adottano il metodo dello scienziato polacco. Le pubblicazioni scientifiche, dati alla mano, certificano la positività del nuovo vaccino. E’ in Italia? Non si va per il verso giusto e tutto ruota ancora intorno al metodo Salk. In un’epoca di informazione, molto più lenta di adesso, le notizie globali sui giornali sono poche. I tecnici dei ministeri competenti, nonostante i report internazionali, pongono dubbi sul metodo Sabin e le sue zollette risolutrici.
Ministro della Sanità è il democristiano Raffaele Giardina, che si mostra molto ostile al nuovo vaccino. Al punto che a “Il Messaggero” dichiara: “Prima che i bambini italiani siano vaccinati con virus attenuati, dovranno passare sulla mia poltrona”. E, con coerenza, nega l’autorizzazione alla libera vendita, in farmacia, del Sabin e ne blocca la produzione, negli stabilimenti italiani, benché l’Italia faccia registrare, nel 1958, 8.000 casi di poliomielite. Eppure qualcosa si muove. Un giornalista toscano dell’ “Avanti !”, Giorgio Giannelli, incontra, per caso, a Roma, il cugino, Fabio Giannelli, specialista in Malattie infettive e relatore in una conferenza scientifica sulla poliomielite. Egli svela le novità del vaccino Sabin e dà al cugino il materiale per uno scoop all’”Avanti !”, che diede la notizia a tutta pagina. Era il 17 maggio del 1961. Nell’Italia dei guelfi e ghibellini, abituata a fronteggiarsi tra Callas e Tebaldi e tra Coppi e Bartali, non mancherà la drammatica contesa tra i vaccini Salk e Sabin. Prende strada una falsa notizia. I virus, contenuti nel Sabin, immunizzano chi lo riceve, ma il vaccinato, a sua volta, diventa portatore attivo verso gli altri. In sostanza, è una sorta di untore. Se si vuole adottare il Sabin, sostengono in tanti, soprattutto medici, farmacisti e informatori scientifici, si dovrebbe vaccinare tutta la popolazione italiana, come oggi noi dovremmo fare, al tempo del Coronavirus. All’epoca, un’ipotesi, praticamente, impossibile.
A Napoli, Milano, Siena sono sorte, nel frattempo, tre industrie che, da tempo, producono il vaccino Salk. Sono stati investiti grandi capitali, da recuperare sul lungo periodo. L’introduzione del siero di Sabin sarebbe, pertanto, una spada di Damocle, puntata su quel business. L’avvicendamento del ministro Iervolino con il suo collega di partito, Camillo Giardina, non porterà alcuna novità. La svolta arriva con il primo governo Moro quando, per la prima volta, i socialisti entrano nella stanza dei bottoni. E alla Sanità viene inviato un giovane deputato calabrese, vicino a Nenni, Giacomo Mancini. Al Quirinale, prima del giuramento da ministro, Mancini nota Giannelli, il giornalista dello scoop. Lo chiama in disparte e gli dice: “Domani vieni al ministero. Mi sarai utile”
Pietro Mancini, figlio di Giacomo-nel libro “....Mi pare si chiamasse Mancini”, edito da Pellegrini, che riprende, nel titolo, una dichiarazione del professor Sabin, in un’intervista, rilasciata all’ “Europeo”- ricostruisce il primo incontro tra il ministro e il premio Nobel. Avviene In Calabria, a Vibo Valentia, alle Giornate mediche. Il ministro ascolta la relazione di Sabin. Chiede dettagli al ricercatore e gli assicura che avrebbe portato la proposta davanti agli esperti dell’Istituto Superiore di Sanità.
Quella riunione è burrascosa e dura molte ore. Gli esperti fanno muro, alcuni si alzano a vanno via, mentre parla Sabin, che dice: “Se non prendete una decisione, domani, sarete indicati come responsabili dei bambini che moriranno e di quelli che rimarranno paralizzati”. Mancini è decisivo per far passare l’approvazione del vaccino. Si organizza il piano di azione. Quella strategia chiara, che sta mancando al ministro Speranza, in questi giorni di disorientamento. Si avviano le ordinazioni con i produttori di vaccino, si stabiliscono le dosi, gli organi preposti vengono chiamati a verificare efficacia e innocuità del vaccino Sabin. Ma c’è anche bisogno di una grande campagna di sensibilizzazione.
Mancini - che, da giovanissimo, è stato responsabile dell’organizzazione nazionale del PSI-si dimostra efficiente. Come ministro, lancia appelli ai medici di famiglia, verga lettere ai Sindaci e fa inviare cartelli e manifesti sulla campagna di vaccinazione. Scendono in campo anche gli ufficiali sanitari provinciali, che scrivono alle famiglie con bambini fino ai sei anni. Il ministro coinvolge i sindacati, mobilita la Rai- tv, i giornali femminili, chiama i suoi amici dello spettacolo a fare da testimonial. Nino Manfredi, Sandra Milo, Antonella Lualdi, molto popolari all’epoca, non fanno mancare il loro contributo.
Tutto sembra pronto per partire. Il ministro convoca a Roma tutti i medici provinciali d’Italia e annuncia che si sta per iniziare. Funzionari e dirigenti sono ancora molto freddi. Mancano i frigoriferi e la catena del freddo per conservare i vaccini. Il ministro s’infuria, batte i pugni sul tavolo e ordina di acquistare frigoriferi da cucina, al ritorno nelle proprie sedi, per iniziare la campagna. Ma fa di più. Contatta il patron dell’Ignis, commendatore Giovanni Borghi, e compra 300 frigoriferi portatili, che possano mettere in sicurezza sei milioni di dosi del vaccino Sabin, finalmente disponibile in Italia, gratuitamente, per tutti.
Il primo marzo del 1964, l’Italia parte con un mega-programma di vaccinazione per combattere la malattia, che diventerà obbligatoria nel 1966. Il presidente della Repubblica, Antonio Segni, dc, aveva presieduto, il 28 gennaio, l’inaugurazione romana della campagna. Un atto simbolico come quello, recente, di Mattarella. L’afflusso negli ambulatori è eccezionale. Il primo giorno è quello più lungo. Il ministro ha come stretto collaboratore, al ministero, il funzionario calabrese Raffaele Sganga. Democristiano, egli ha lavorato con i precedenti ministri, contrari al Sabin, e sui dati di fatto ha deciso di sostenere la svolta di Mancini. E’ lui, con il ministro, ad aspettare le notizie da tutt’Italia. Restano in attesa fino all’una di notte. Spengono le luci dei loro uffici e tornano a casa.
Alle 2,30 squilla il telefono a casa Sganga. E’ Giacomo Mancini, che ha appreso che, a Milano, un bambino di 3 mesi, vaccinato la mattina, è in coma, in ospedale. Sono anni in cui la mortalità infantile è molto alta. Se la notizia dovesse trapelare, i giornali potrebbero affossare tutto il lavoro svolto. All’alba del 14 marzo, Sganga sale sul primo treno per Milano. All’arrivo alla stazione centrale, ad attenderlo, c’è il responsabile sanitario provinciale. Vanno in ospedale. Il bambino resta in coma, ma le cause non sono da attribuire, assolutamente, alla vaccinazione. Mancini apprende la notizia con il sollievo che si può immaginare. In breve tempo, vengono vaccinati tre milioni e mezzo di bambini. Dopo un anno, il doppio. I colpiti dal morbo, da una media di 70 mila l’anno, scesero a 5 mila.
Nel 1965, i casi scesero a 841, nel 1966 a 147, nel 1971 i bambini, affetti da poliomielite, sono solo 15. L’ultimo caso italiano è registrato nel 1982. Purtroppo, il ritardo, nella sua adozione, costò quasi 10.000 casi di poliomielite (oltre 1.000 morti e 8.000 paralisi). Al teatro Sistina di Roma, la Lega antipoliomielite consegna, nel gennaio del 1965, a Giacomo Mancini-definito da Francesco Cossiga un “genio della concretezza”- la medaglia d’oro per aver salvato tante migliaia di giovani dalla contaminazione. Di recente, su una rivista on line, un giornalista di Latina, Lidano Grassucci, nell’annunciare la fiducia nel sottoporsi al vaccino contro il Coronavirus, ha voluto ringraziare: “Albert Sabin e Giacomo Mancini, il ministro della Sanità, socialista, che ci fece vaccinare tutti, salvandoci tutti, ed eravamo in tanti !”. Sabin non brevettò mai il vaccino e disse, prima di morire, molto povero, nel 1993: “Tanti insistevano che brevettassi il vaccino, ma non ho voluto. È il mio regalo a tutti i bambini del mondo":
*Ex direttore de “Il Quotidiano della Basilicata”